Nazionalismo, Dominica.

Il 3 novembre 2018, Dominica festeggia i quarant’anni di indipendenza. È una nazione ancora molto giovane, considerata a reddito medio-basso, fa parte del Commonwealth rimane quindi nella sfera economica britannica. Economia debole prevalentemente agricola, ma anche turismo di nicchia, sfruttando la ricchezza e la natura incontaminata, per competere con la sua diversità di offerta la grande concorrenza delle altre isole caraibiche. Piccolo paradiso fiscale, qualche servizio importante quali call centers anche per gli Stati Uniti grazie all’inglese ormai prevalente tra i giovani che stanno abbandonando il creolo.

I Dominicani sono giustamente orgogliosi del loro paese anche se l’indipendenza non ha portato i risultati sperati in termini di sviluppo economico e distribuzione della ricchezza. Le grandi famiglie che tengono il potere economico sono di origine palestinese o siriana, alcuni ebrei e gli immancabili cinesi che si stanno impossessando del piccolo commercio. Inglesi incredibilmente spariti.

Sono arrivato pochi giorni prima del 3 novembre, ovviamente festa nazionale con tanto di parata para-militare, perché Dominica non ha un esercito vero e proprio, e balli organizzati nello stadio nazionale di cricket, lo sport nazionale e retaggio del colonialismo inglese. Chiedo a Greg il gestore dell’Hotel Flamboyant (scintillante solo di nome) come e dove si farà festa pensando già di andare a fare baldoria. Greg mi risponde serio che non festeggia un evento che rappresenta invece una sciagura, voluta dai politici e non dalla gente. E mi dice ancora più serio. “E poi guarda la carta a nord c’è Guadalupa, a sud c’è Martinica quindi Dominica dovrebbe essere francese”. Dal punto di vista dell’opportunismo economico personale non fa una grinza. Dominica è l’isola più povera dei Caraibi (escluso Haiti) vicina alle isole probabilmente se non più ricche ma che beneficiano del sistema di protezione sociale di una potenza economica quale la Francia.

Dal punto di vista storico non ha ovviamente fondamento. Inglese dal 1763 quando fu ceduta dai francesi dopo la sconfitta della guerra dei sette anni. I francesi provarono varie volte a riconquistarla anche sotto Napoleone nel 1805 grazie all’appoggio della popolazione che si sentiva francese dopo averla conquista dagli spagnoli all’inizio del XVIII. Dopo un secolo e mezzo incredibile il fatto che resista un sentimento pro-francese. A dire il vero gli spagnoli non provarono a difendere l’isola perché non la conquistarono proprio del tutto. La popolazione indigena, i Kalinago, divennero famosi per l’abilità guerriera e la resistenza ai primi conquistatori che avvistarono l’isola una domenica. Da qui nasce il nome, come per la repubblica dominicana. Cosi come le due dominiche sono associate dal nome lo sono anche dal fatto di essere le uniche isole caraibiche a ospitare ancora delle popolazioni indigene pre-colombiane.  I Kalinago di Dominica sono circa 6 mila abitanti costituendo la comunità indigena più grandi dei caraibi. Il capo attuale dei Kalinago, Chief Charles Williams o semplicemente Chief, mi ha spiegato come sia nell’ordine delle cose che l’appartenenza alla comunità sia trasmessa dagli uomini. Se un uomo sceglie una donna fuori dalla comunità la discendenza sarà kalinago mentre se una donna si sposa con un non-kalinago di fatto abbandona la comunità.

Incredibile che dopo più di tre secoli ancora si possano riconoscere i Kalinago rispetto agli emigrati post-colombiani tutti discendenti degli schiavi dall’Africani occidentale e centrale. I Kalinago sono chiari praticamente bianchi dai tratti somatici orientali. Sembrano giapponesi o filippini. Molti portano ancora fieri i nomi di origine francese come Peltier o Graneau. Insomma Dominica è una piccola isola in un grande frullato di storia tra spagnoli, francesi, inglesi, africani e asiatici. Il senso di orgoglio della discendenza indigena è molto forte. Avere una pelle più chiara per quanto mischiata nel corso dei secoli è motivo di orgoglio sottolineato dalla puntualizzazione “I’m coming from the Territory” o un ancor più forte legame con “I live in the Territory”.

 

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