Il sette marzo abbiamo appena fatto in tempo a festeggiare il primo compleanno di Mattia in compagnia degli amici, con festa sul terrazzo e bastonate alla piñata “baby shark” giallo, che anche Panamá si è aggiunta ai paesi in emergenza sanitaria, decretando le prime misure di confinamiento. Come in tutto il mondo, anche a Panamá ci siamo tutti rinchiusi in casa per combattere il nemico invisibile del corona virus. Visto l’andazzo in Italia, l’undici marzo il governo panamense ha dichiarato l’emergenza sanitaria nazionale decretando, tra le varie misure, prima il coprifuoco tra le sette di sera e le cinque del mattino, poi via via ha adottato misure sempre più restrittive. Infine, il venticinque marzo ha imposto la clausura totale al grido Me quedo en casa, imponendo ai panamensi l’esperienza di confinamiento tra le più severe del continente americano e probabilmente del mondo.
Dopo trecento quarantuno giorni ovvero undici mesi e quattro giorni il governo panamense ha tolto la quarantena totale. Finalmente! Nel corso dell’anno la quarantena è stata variabile, passando dalla sola domenica, al fine settimana o estesa a tutta la settimana, normalmente con misure prese un mese per l’altro. Quando hanno introdotto la chiusura per tutta la settimana, si è potuto uscire di casa per fare la spesa solo nell’orario stabilito secondo il numero finale del documento di identità. Con il documento che finisce con un due, per esempio come il mio, potevi andare a fare la spesa (e solo la spesa!) alle due del pomeriggio, con disponibilità di una mezz’ora prima e dopo per spostarsi. La mia ora di aria era tra le 13.30 e le 15.30. La domenica chiusura totale e assoluta per tutti, poi estesa anche al sabato. Dalle cinque del pomeriggio di venerdì alle cinque del mattino di lunedì tutti rigorosamente rintanati in casa.
Dopo una settimana di questa misura già drastica il governo, evidentemente non soddisfatto dell’impatto delle misure imposte, introduce un’ulteriore limitazione ai movimenti delle persone. Sono permesse le uscite solo per genere, uomini e donni a giorni alterni. Lunedì, mercoledì e venerdì le donne. Martedì, giovedì e sabato gli uomini. Con la successiva chiusura totale dei sabati, si è arrivati a sole quattro ore di aria a settimana per gli uomini. Quattro ore complessive a settimana! Duecento ventiquattro minuti! E praticamente ininterrottamente da aprile a settembre.
La misura uomini-donne quasi unica al mondo è stata molto derisa ma ha reso più facili i controlli. Si vede subito il genere senza dover chiedere il numero del documento, misura che comunque rimane in vigore. E i controlli ci sono stati. Niente autocertificazioni, niente scuse, niente permessi, niente ho-il-gomito-che-fa-contatto-con-il-ginocchio-e-mia-nonna-congiunta-anche-se-è-da-anni-che-non-la-vedo-ho-avuto-un-irreprimibile-impulso-nonnistico.
Nel picco della pandemia da aprile e giugno, nei due chilometri tra casa e supermercato c’erano minimo due ma fino a quattro posti di blocco. Polizia e militari schierati in assetto antisommossa con mitra spianato. C’è poco da scherzare in un paese dalla democrazia giovane e, come in tutta l’America latina, la polizia non va per il sottile. Se c’è da usare la forza non esita a farlo. Se ti pizzicano la multa può andare dai cento ai mille dollari. Oppure c’è la concussione rapida, sul posto, con trattativa immediata. Tariffa consolidata informale: venti dollari. Un malcostume molto diffuso in America latina.
Passati posti di blocco, controlli, fila con distanza minima di due metri, misura di temperatura, annaffiamento di gel e alcol, si accede finalmente al momento di svago più importante della settimana: la spesa al supermercato! Niente di eccezionale: è stato il quotidiano in tutto il mondo. Però l’esperienza supermercato a Panamá ha avuto un tocco in più grazie alla segregazione forzata uomini-donne. Mi ritrovo nel mio turno-uomo in mezzo a solo uomini. Che si dividono in due categorie. Quelli abituati a fare la spesa, muovendosi a passi sicuri nella giungla dei prodotti tra la zona beveraggio di birre e vini ma a loro agio anche nella zona tutto-per-il-barbecue. Poi ci sono quelli che sono alla prima esperienza di caccia del cibo, i quali entrano nel supermercato come Alice nel paese delle meraviglie. Oltre allo sguardo stupefatto e all’avanzare incerto, si riconoscono da una caratteristica inequivocabile: vengono teleguidati. Ognuno con il proprio strumento in mano, a diverso grado di sofisticazione. Dalla tradizionale lista della spesa, girata e rigirata in tutti i versi, manco avessero in mano la rosetta di Champolion, per decifrare oscuri nomi di prodotti. All’utilizzo della più sofisticata tecnologia con telefono in video chiamata per scovare il prodotto richiesto da casa, rigorosamente puntato sugli scaffali. O alla combinazione dei due strumenti, lista della spesa e telefono che permette la chiamata aiuto-da-casa, resa finale e amissione ineludibile della propria inferiorità nel disperato atto di sopravvivenza primaria quale la spesa.
La clausura è stata accompagnata da un’altra misura restrittiva con la promulgazione della “legge secca”. Divieto assoluto di vendita e consumo di alcolici in vigore per tre mesi durante il periodo di clausura più restrittivo. Nel primo periodo abbiamo attaccato le riserve di vino e birra in casa, però si sono “seccate” molto rapidamente… Quindi abbiamo affrontato la prova-secca spavaldi al grido ma-dai-che-ci-fa-solo-del-bene-una-bella-dieta-alcolica-in-questo-periodo-di-non-movimento. Però questa fase è durata poco, molto poco. Siamo poi passati all’eccesso opposto: abbiamo attaccato lo scaffale dei super alcolici. Ma dopo alcuni pasti accompagnati da rum e gin abbiamo pensato (più Giulia che io, per dovere di cronaca!) che fosse il caso di trovare una soluzione a questo serio, serissimo problema della ley seca. Lanciato appello disperato sulle chat di aiuto-alcolista-palese, abbiamo trovato il contrabbandiere (un venezuelano) che ha organizzato un traffico illegale tipo America del proibizionismo anni Venti. Contatto via whatsapp. Invio del catalogo, tutti vini italiani. Pagamento anticipato con trasferimento bancario immediato e modico sovraprezzo di 120 dollari per il “servizio di trasporto”. Il sovraprezzo include il fattore rischio che si concreta in una multa di dieci mila dollari a chi vende o trasporta alcolici durante la legge secca. Appuntamento per la consegna, la quale deve essere fatta durante le due ore di mobilità di chi consegna. Infine, agognata consegna con spacchettamento di trenta bottiglie infrattate in mezzo a vestiti, sparse in tre valigie come a simulare un cambio di casa. Abbiamo avuto bisogno di due consegne per far fronte alla dura ley seca!
La legge secca è una consuetudine in molti paesi dell’America latina, applicata nei giorni delle votazioni (per evitare che gli animi si scaldino) o il giorno dei defunti (per rispetto). Però solo per pochi giorni, non per periodi così lunghi. Durante la clausura da pandemia il governo lo ha introdotto per limitare la violenza domestica, triste fenomeno purtroppo molto diffuso in America latina. E’ difficile avere statistiche omogenee sulla violenza domestica che permettano paragoni significativi tra paesi. Un proxy tristemente più affidabile per capire il fenomeno è guardare al numero di femminicidi ogni 100,000 abitanti. Otto dei primi dieci paesi al mondo di questa poco onorevole classifica sono in America latina e Caraibi, capeggiata da El Salvador (tredici ogni 100,000 abitanti in media tra 2007 e 2012) mentre Panamá è al diciannovesimo posto con quattro femminicidi ogni centomila abitanti. Un fenomeno che il governo panamense evidentemente conosce bene tanto che l’imposizione della ley seca non ha sollevato reazioni da parte dell’opinione pubblica. In generale, colpisce molto la comunicazione della crisi del COVID con un atteggiamento molto paternalistico dei messaggi twitter e facebook del ministero de la salute. Molti comunicati stigmatizzavano, neanche tanto velatamente, il cattivo comportamento della popolazione con affermazioni del tipo “visto che non rispettate le misure di distanza sociale dobbiamo prolungare la quarantena…” oppure un minaccioso “state attenti che se non vi comportate bene continuiamo a tenervi chiusi in casa…”. Non ho seguito da vicino il dibattito politico però da lontano colpisce lo scarso confronto tra i partiti politici sulle misure da adottare e, soprattutto, la limitata contestazione da parte dell’opinione pubblica. Solo alcune proteste di fronte alla casa presidenziale, il cui ingresso è a una cinquantina di metri da casa nostra. O las protestas de las ollas quindici minuti di tamburello sulle pentole con un cucchiaio, dalle terrazze, balconi o finestre di casa. Ma in un anno, lo sbattimento di pentole per chiedere la ripresa delle attività economiche sarà successo tre volte.
Le piccole imprese della ristorazione e degli alberghi sono state le più colpiti economicamente, come in tutto il mondo. Il turismo è la terza fonte di ingresso dell’economia panamense. Le prime due fonti, nell’ordine il Canale e i servizi finanziari non hanno subito un crollo. Le merci e i soldi hanno continuato a viaggiare e a passare per Panamá, oliando la sua economia. Si sono fermate le persone. E con esse le navi crociera che ad ogni transito attraverso il canale versano un generoso obolo dai settecento mila al milione e duecento mila dollari, a secondo del numero di passeggeri. Anche il canale ha subito una certa flessione nei suoi incassi. Ma dentro ogni nave ci sono storie di persone, di equipaggi bloccati per mesi a bordo per la chiusura delle frontiere, che non hanno potuto mettere piede a terra. Dal terrazzo di casa, che si affaccia sull’accesso al canale lato oceano pacifico, per varie settimane abbiamo visto decine di navi crociera alla fonda probabilmente in attesa di qualche autorizzazione per far sbarcare l’equipaggio o di capire cosa fare di questi immensi villaggi galleggianti che nessuno vuole far approdare.
E così, mangiando in casa, bevendo alla faccia la ley seca e soprattutto stando bene, siamo arrivati a marzo duemilaventuno pronti a festeggiare il secondo compleanno di Mattia… forse la prima festa dopo quasi dodici mesi ininterrotti di clausura… da una piñata all’altra.
Nota: ho utilizzato il termine clausura perché non capisco il proliferare dell’uso di parole inglesi in Itali,a uno su tutti “lockdown” menzionato addirittura nei decreti governativi. “Clausura” o “confinamento” sarebbero andati benissimo. Poi rimango perplesso quando addirittura si utilizzano termini inglesi in modo sbagliato, come “smartworking”. Neanche gli anglosassoni lo utilizzano e semmai la combinazione di queste due parole farebbe pensare loro l’andare al lavoro con vestiti eleganti, fatto che associano facilmente (con sarcasmo derisorio) a una abitudine italiana.