Somiglianze dominicane

In cinque mesi sono stato paragonato nell’ordine: a Superman, a Burt Lancaster e due volte a Paul McCartney. Da persone che ho incontrato o da semplici passanti per la strada. È un classico: le persone della stessa razza (bianca in questo caso) si somigliano tutte viste dalle persone di un’altra razza (nera). La cosa funziona cosi in entrambi i sensi poi con il tempo l’attenzione ai dettagli si affina. La somiglianza con Superman mi onora. Visto che posso scegliere tra 11 attori interpreti del ruolo, scelgo il mitico Christopher Reeve anche se probabilmente mi avranno probabilmente visto come una copia venuta male di Tom Welling.

Molto più stravagante il commento-somiglianza con il vecchio Burt. Ammetto che ho dovuto googolare per controllare le fattezze del cow-boy attore. L’apparentamento è stato fatto da un anziano ospite di un centro di accoglienza in una scuola di Roseau. 79 anni, pochi denti, sguardo sveglio e mente ancora molto lucida. Bisogna convincerlo, insieme ad un’altra ventina di ospiti dell’edificio scolastico, a spostarsi per permettere agli studenti di tornare a scuola. Dopo una discussione animata riusciamo a rassicurarlo che il governo, con il sostegno delle organizzazioni internazionali, troverà una sistemazione adeguata che gli permetta una vita decente. Quando la tensione si abbassa al momento dei saluti mi dice “e poi tu assomigli a Burt Lancaster, mi posso fidare di te” e giù grandi abbracci e pacche sulle spalle. Operatori umanitari non siamo né missionari volontari né tanto meno Superman o cow-boy però un piccolo riconoscimento per il lavoro fatto fa indubbiamente piacere. Cosi lascio Dominica con la sensazione di aver compiuto qualcosa per delle persone meravigliose, pacifiche e che combattono la lotta giornaliera di sopravvivenza individuale e collettiva arrampicati in un piccolo scoglio in mezzo all’oceano atlantico.

  

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Loubière, Parish of Saint George, Dominica

Un sabato mattina decido di prendermi qualche ora per uscire dalla routine casa-ufficio e decido di andare a fotografare la forza devastatrice dell’uragano. Correndo la mattina partendo da casa raggiungevo Loubière, un piccolo villaggio cinque chilometri a sud di Roseau che si sviluppa ai margini di un fiume. Mi aveva colpito il livello di distruzione. Scopro essere anche il villaggio dove vive il nostro autista Dwight, il quale mi ha raccontato ancora sotto choc come tra i dispersi di Maria ci fosse il suo miglior amico-vicino con la moglie. Verso le sette di sera quando l’uragano cominciò a salire di intensità e con esso il fiume che si gonfiava aveva detto all’amico di rifugiarsi a casa sua, più alta sul fiume. Avevano letteralmente messo in salvo tutta la famiglia con le tue bimbe piccole tirandoli fuori con cime. Poi nell’occhio del ciclone l’amico e la moglie avevano deciso di tornare a casa per prendere delle cose. Non hanno mai più ritrovato i loro corpi. Maria ha colpito Dominica per otto dalle nove di sera alle cinque del mattino. Una nottata d’inferno.

Armato della mia Leica vado quindi a fotografare la chiesa devastata, la casa distrutta (che poi scoprirò essere quella dell’amico di Dwight), al ponte spazzato via. Un po’ più in là dalla casa vicino al ponte mi invita ad entrare in casa un signore, capelli lunghi con le trecce e barba lunga anche quella con le trecce. Un vero rastafarian, come tanti sull’isola. Mi fa vedere la casa distrutta. Mi mostra dove si sono rifugiati al piano di sopra per sfuggire al fiume mentre il tetto volava via. E parliamo per due ore. Sul perché è successo, sul cambio climatico. Sulla ricostruzione, su quello che deve fare la gente. Su quello che fanno i politici. Sull’importanza degli aiuti. Sul fatto che bisogna rispettare la natura e che eventi naturali di questa forza sono un segnale affinché la rispettiamo più. Sulla necessità di ricostruire bene e che seguirà le istruzioni degli esperti e del governo perché anche se costerà di più è sempre meglio che perdere tutto. Sull’idea di business di vendere erbe curative ai turisti perché bisogna vivere in armonia con la natura. Sul fatto che pretendiamo troppo dalla madre terra mentre ci potremmo accontentare di poco. Il fratello si aggrega alla discussione. Tiene un bel cannone in mano alle nove del mattino! però ha un sguardo magnetico con degli occhi chiari che contrastano la pelle più scura. Sono entrambi lucidissimi e simpaticissimi, i fratelli Albert e Anthony Joseph. Il maggiore Albert mi mostra orgoglioso le foto della sua carriera di cuoco sulle navi da crociera. Fiero nella sua elegante divisa quasi sembra un ufficiale di marina. Dopo 30 anni di lavoro aveva raggiunto il grado più alto capo-cuoco. Ora in pensione con il sorriso con pochi denti rimasti ma tante idee. Maria ha piegato lui e suo fratello ma non li abbattuti. I fratelli Joseph sono pronti a ricominciare da capo. Hanno perso tutto tranne la voglia di vivere, in armonia con la natura.

Qualche mese dopo, di ritorno a Dominica per la valutazione del progetto, incontro Albert in una riunione con una decina di beneficiari dell’assistenza. Il suo aspetto rastafarian contrasta con gli altri e attira l’attenzione. Prende la parola per ultimo. Con voce calma ma profonda spiega che i soldi ricevuto sono importanti ma meno del sostegno psicologico e del sapere che la gente di Dominica non è stata abbandonata. Poi comincia a raccontare, costruendo la storia in un cresecendo, che ogni mattina vedeva un tipo correre fino al ponte vicino a casa sua. Scambio di sguardi e di saluti veloci. Poi un giorno il tipo si ferma li a fare foto e lo invita in casa e cominciano a parlare per tanto tempo, di tutto. Lo scambio umano è quello che conta, dice. Tutti i partecipanti alla riunione, compreso il mio capo basato a Panamá, si chiedono dove Albert vuole andare a parare. E da consumato attore si alza dicendo che questo tipo è qui oggi e lo voglio salutare e ringraziare. Si alza e ci abbracciamo. Un personaggio unico Albert che saluto con gesto rastafarian, pugno chiuso e due colpi sul cuore in segno di riconoscimento!

 

 

 

 

 

Il Carnevale nel Caribe

Si arriva sempre in un posto nuovo con il proprio bagaglio e riflessi culturali. Dominica è un paese molto religioso, cristiano prevalentemente protestante, con minoranze evangeliche ma anche cattoliche. Infatti per l’emergenza in proporzione alla dimensione del paese si sono ritrovate molte ONG con forte connotazione religiosa da quelle cristiane occidentali, ai testimoni di Geova fino a un ONG israeliana molto attiva. Manca all’appello un’organizzazione musulmana malgrado ci sia una comunità islamica abbastante importante. Quindi per natale e capodanno mi aspettavo grandi festeggiamenti. Grande delusione invece! Da buon paese cristiano il natale di Cristo si festeggia con messa di mezzanotte, giornata in famiglia, pochi regali e qualche fuoco di artificio. Il capodanno zero! Un giorno qualsiasi dell’anno. Si va a dormire come di consueto alle dieci di sera (come in tanti paesi tropicali dove fa buio alle sei ci si sveglia presto e si va a letto presto). Capodanno esiste solo perché segna l’avvicinarsi del vero, atteso evento annuale: il Carnevale. Che si comincia a festeggiare un mese prima quindi già a gennaio. Però in Dominica nulla è proprio “normale”.

Un venerdì vado tranquillo verso mezzanotte quando in piena notte vengo svegliato da musica da discoteca a tutto volume tanto da far sembrare che la musica venga dalla casa a fianco alla mia stanza. Sono le quattro del mattino e mi affaccio al balcone. Vedo gente per strada che fa la fila per entrare in un locale dall’altra parte del campo di calcio che sta al lato della palazzina dove vivo. La festa va avanti fino alle sei e poi smette. Il giorno seguendo mi dicono che per un mese fino a carnevale ci saranno feste, quasi un allenamento per arrivare preparati al grande Evento. E ci prepara dalle quattro alle sei del mattino con musica sparata a migliaia di decibel che si espande in tutto il quartiere. Le serate successive, visto che era impossibile dormire, decido di partecipare e vederlo dal vivo. La serata è un deejay che suona cover cantandoci sopra, arrangiando musica disco ma senza trascinare veramente il pubblico a ballare che infatti balla poco. La musica ad alto volume è comunque una tradizione di Dominica. Generalmente sparata da casse mostruose montate nei bagagliai delle macchine. I venerdì sera, unico vero giorno di festa della settimana, tutti i giovani dell’isola si riversano nella capitale girando più volte in macchina per le due strade principali con musica a tutto volume, facendo concorrenza con i decibel dei tre locali principali con le casse rivolte in strada. Un’accozzaglia di suoni annaffiata da rum artigianale.

La preparazione verso il grande evento prevede anche un festival della canzone, che ho la possibilità di seguire dal vivo, visto che si svolge sul campo di calcio vicino casa. Ogni sabato per quasi due mesi una sessantina di concorrenti si affrontano fino ad arrivare a una selezione dei dieci migliori per la grande finale. È il Calypso, un vero e proprio Sanremo della Dominica. I cantanti devono presentare inediti e vengono valutati da una giura di specialisti, in base al testo, la musica e la presentazione artistica. Per un mese le radio passano a ripetizioni le nuove canzoni, trasmissioni intere ne fanno la critica, prevedono finalisti e vincitore, tutti ne parlano per strada facendo il tifo e aspettando la finale. Che si svolge il sabato prima del giovedì grasso dalle sette a mezzanotte, quest’anno sotto una pioggia ininterrotta tanto che il pubblico immobile affonda nel fango. Nessuno balla perché alla fine la parte più importante è il testo. La musica va in secondo piano e tutti ascoltano attentamente i testi a volte ironici, a volte di denuncia politica. In un paese cosi piccolo dove tutti si conoscono, dove il primo ministro conosce per nome tutti, la loro vita (e la loro preferenza politica), il Calypso diventa l’espressione politica di opposizione e di denuncia più importante. Quest’anno il tema ricorrente era ovviamente Maria e come venissero spesi i soldi degli aiuti e della ricostruzione. Quest’anno the King of Calypso è stato Bobb con una canzone-denuncia sulla libertà di espressione del Calypso. Buon musicista Bobb, eclettico, che ho conosciuto perché ha fotografato i nostri eventi, è riuscito a vincere dopo tanti tentativi. E’ diventato personaggio dominicano dell’anno.

Finito il Calypso, arriva finalmente il Carnevale. La giornata clou è il martedì grasso. Però i festeggiamenti cominciano già il lunedì, ovviamente alle 4 del mattino. Concerto a tutto volume, stessa musica, stesso schema delle feste preparatorie con deejay che suona cover e canta. Però questa volta non ci si ferma alle sei del mattino ma si va ad oltranza. Il perfetto partecipante del Carnevale ci arriva preparato, molto idratato, abbigliamento da festa, scarpe da fango e soprattutto zainetto tipo ultra-marathoner con porta liquido incorporato e tubicino per un’idratazione continua, acqua o rum che sia. Per due giorni, entrambi festa nazionale, tutta l’isola viene travolta da un turbinio di gente che avanza in una processione con musica a tutto volume procedendo in un unico movimento in piccoli passi uno-due, uno-due a ritmo di Suka. Il Suka, il ballo dal richiamo sessuale esplicito. La dama si pone davanti al suo cavaliere porgendo il proprio fondo schiena ben appoggiato alla zona inguinale maschile. La dama poi fa scendere lentamente il suo busto fino a novanta gradi, mentre il cavaliere rimane inerme (e per quanto possibile impassibile). E avanzano, uno-due, uno-due. La dama può rimanere con lo stesso cavaliere oppure scegliere di appoggiare il suo fondo schiena contro un altro cavaliere. Cosi come il cavaliere può scegliere di offrire il proprio inguine a un’altra dama. E cosi via uno-due, uno-due, tutto il giorno in un turbinio di gente, sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente fino a notte. Il martedì, giornata finale, si ricomincia solo che questa volta con la parata dei carri e la ricchezza dei travestimenti. E un tasso alcolico molto più alto. Tutto sommato, malgrado musica e alcol inebrianti il grande ballo di massa si svolge senza grandi incidenti. Al minimo segnale di violenza, la processione e la musica vengono fermati finché ritorna la calma. Tutto è permesso al Carnevale, grande valvola di sfogo dell’isola, senza gli eccessi violenti di altri paesi. Tanto che Dominica è tra i paesi meno violenti dei paesi caraibici, che contano 15 dei primi 25 paesi con il maggior numeri di morti ammazzati al mondo. Il paradiso da cartolina non è sempre cosi paradisiaco per chi ci vive tutto l’anno.

          

     

Nazionalismo, Dominica.

Il 3 novembre 2018, Dominica festeggia i quarant’anni di indipendenza. È una nazione ancora molto giovane, considerata a reddito medio-basso, fa parte del Commonwealth rimane quindi nella sfera economica britannica. Economia debole prevalentemente agricola, ma anche turismo di nicchia, sfruttando la ricchezza e la natura incontaminata, per competere con la sua diversità di offerta la grande concorrenza delle altre isole caraibiche. Piccolo paradiso fiscale, qualche servizio importante quali call centers anche per gli Stati Uniti grazie all’inglese ormai prevalente tra i giovani che stanno abbandonando il creolo.

I Dominicani sono giustamente orgogliosi del loro paese anche se l’indipendenza non ha portato i risultati sperati in termini di sviluppo economico e distribuzione della ricchezza. Le grandi famiglie che tengono il potere economico sono di origine palestinese o siriana, alcuni ebrei e gli immancabili cinesi che si stanno impossessando del piccolo commercio. Inglesi incredibilmente spariti.

Sono arrivato pochi giorni prima del 3 novembre, ovviamente festa nazionale con tanto di parata para-militare, perché Dominica non ha un esercito vero e proprio, e balli organizzati nello stadio nazionale di cricket, lo sport nazionale e retaggio del colonialismo inglese. Chiedo a Greg il gestore dell’Hotel Flamboyant (scintillante solo di nome) come e dove si farà festa pensando già di andare a fare baldoria. Greg mi risponde serio che non festeggia un evento che rappresenta invece una sciagura, voluta dai politici e non dalla gente. E mi dice ancora più serio. “E poi guarda la carta a nord c’è Guadalupa, a sud c’è Martinica quindi Dominica dovrebbe essere francese”. Dal punto di vista dell’opportunismo economico personale non fa una grinza. Dominica è l’isola più povera dei Caraibi (escluso Haiti) vicina alle isole probabilmente se non più ricche ma che beneficiano del sistema di protezione sociale di una potenza economica quale la Francia.

Dal punto di vista storico non ha ovviamente fondamento. Inglese dal 1763 quando fu ceduta dai francesi dopo la sconfitta della guerra dei sette anni. I francesi provarono varie volte a riconquistarla anche sotto Napoleone nel 1805 grazie all’appoggio della popolazione che si sentiva francese dopo averla conquista dagli spagnoli all’inizio del XVIII. Dopo un secolo e mezzo incredibile il fatto che resista un sentimento pro-francese. A dire il vero gli spagnoli non provarono a difendere l’isola perché non la conquistarono proprio del tutto. La popolazione indigena, i Kalinago, divennero famosi per l’abilità guerriera e la resistenza ai primi conquistatori che avvistarono l’isola una domenica. Da qui nasce il nome, come per la repubblica dominicana. Cosi come le due dominiche sono associate dal nome lo sono anche dal fatto di essere le uniche isole caraibiche a ospitare ancora delle popolazioni indigene pre-colombiane.  I Kalinago di Dominica sono circa 6 mila abitanti costituendo la comunità indigena più grandi dei caraibi. Il capo attuale dei Kalinago, Chief Charles Williams o semplicemente Chief, mi ha spiegato come sia nell’ordine delle cose che l’appartenenza alla comunità sia trasmessa dagli uomini. Se un uomo sceglie una donna fuori dalla comunità la discendenza sarà kalinago mentre se una donna si sposa con un non-kalinago di fatto abbandona la comunità.

Incredibile che dopo più di tre secoli ancora si possano riconoscere i Kalinago rispetto agli emigrati post-colombiani tutti discendenti degli schiavi dall’Africani occidentale e centrale. I Kalinago sono chiari praticamente bianchi dai tratti somatici orientali. Sembrano giapponesi o filippini. Molti portano ancora fieri i nomi di origine francese come Peltier o Graneau. Insomma Dominica è una piccola isola in un grande frullato di storia tra spagnoli, francesi, inglesi, africani e asiatici. Il senso di orgoglio della discendenza indigena è molto forte. Avere una pelle più chiara per quanto mischiata nel corso dei secoli è motivo di orgoglio sottolineato dalla puntualizzazione “I’m coming from the Territory” o un ancor più forte legame con “I live in the Territory”.

 

Dominica, uragano Maria.

Arrivo in Dominica un mese e dieci giorni dopo Hurricane Maria, dopo due giorni di viaggio da San Salvador passando da Panamá poi Trinidad and Tobago da dove faccio il “hop-ing” di alcune isole dei caraibi orientali da cartolina quali Grenada, Saint Vincent, Saint Lucia fino ad Antigua. Da Antigua volo umanitario verso meta finale Roseau, la capitale di Dominica. Attenzione! a non confondere Dominica con Repubblica Dominicana. Sta al lato opposto dei caraibi (sud orientali) e si parla inglese e non spagnolo. È difficile trovarla sul mappamondo poiché è il ventiduesimo stato indipendente più piccolo al mondo battendo di poco Tonga, Singapore e Andorra ma soprattutto il quattordicesimo più piccolo per popolazione con i suoi 76 mila abitanti. Quindi un sasso buttato nel mare dei caraibi che si trova esposto a quanto pare più delle isole vicine a tutte le possibili calamità naturali quali terremoto, tsunami, eruzione vulcaniche (ce ne sono 11!), smottamenti perché ha montagne molto ripide a picco sul mare.

Dominica è stata investita da due eventi devastatori in due anni. Tempesta tropicale Erika nel 2015 e Uragano Maria la notte tra il 18 e il 19 settembre 2017. Maria, da pronunciarsi con l’accento sulla “a” ha colto il paese di sorpresa. Delle calamità naturali immediate, gli uragani sono quelli più prevedibili e lasciano più tempo per mettersi al riparo. Però Maria non ha lasciato scampo. In meno di dodici ore è passato da uragano di categoria 1 a categoria 5 (scala massima), cioè venti a 140 km/h raddoppiati a più di 280km/h investendo l’isola da sud-est a nord-ovest e guadagnandosi il primato di decimo uragano atlantico più violento di tutti i tempi. Sulla sua corsa ha lasciato sul campo 70 morti, case spazzate, tetti divelti e ponti distrutti. Poi ha continuato la sua attività distruttrice verso Puerto Rico, devastandola.

Quando sorvolo l’isola a bassa quota con il piccolo bimotore a elica, la cosa che più colpisce è il grigiore dell’isola. Gli alberi sono completamente spogli. Le palme hanno perso la parte superiore. Alberi centenari abbattuti, sradicati. La foresta tropicale sembra fatta di tanti spunzoni come una spazzola per i capelli, grigia e vecchia. Avvicinandosi vedendo meglio le strutture, la seconda cosa che colpisce è la quantità delle case senza tetto. Infatti le inchieste per valutare i danni che faremo in seguito confermano che il 90% delle case hanno avuto danni, di cui il 30% totalmente distrutte e un altro 30% molto danneggiate cioè senza più servizi, tetto e forse neanche una stanza per dormire. In sostanza un disastro che ha colpito tutta l’isola. Ed è quello che mi colpisce di più: l’uragano ha investito democraticamente tutti ricchi e poveri. Tutto è distrutto. Tutti sono stati colpiti. Anche il primo ministro è stato evacuato, con la famiglia si sono sistemati in un’ala degli uffici del palazzo presidenziale. Quando parli con le persone qualsiasi sia l’argomento comincia sempre con il paragone before Mària. Per anni ci sarà un prima e un dopo Maria. Poi vedendo la devastazione ti chiedi da dove si ricomincia la ricostruzione.

Intanto c’è da assicurare i servizi minimi essenziali: acqua, cibo, salute, riparo, prime riparazioni alle infrastrutture, telecomunicazioni e logistica per muovere gli aiuti. E la macchina internazionale degli aiuti si è messa in moto subito. Io sono a carico di cibo, telecomunicazioni e logistica con un team di una ventina di colleghi in collegamento con gli altri operatori umanitari (per un totale di un centinaio di persone) e soprattutto il governo. Mi vengono in mente le parole del mio collega capo della logistica regionale che avevo incontrato a Panamá poco prima di partire per Dominica, lui di ritorno dopo esserci passato il giorno successivo all’uragano per una ricognizione dei danni. È stato il primo di tutta la comunità internazionale a raggiungere Dominica con il nostro volo umanitario. Mi commentava che non aveva mai visto una situazione del genere con gli abitanti completamente persi che si aggiravano tra le macerie con lo sguardo smarrito domandosi che cosa gli fosse successo. E certo non era la prima emergenza che vedeva. I nostri logistici sono incredibili: tu stai ancora pensando se ti devi muovere e cosa devi fare e loro sono già sul posto ad organizzare gli aiuti, o meglio innanzitutto a permettere a come fare arrivare gli aiuti sia da fuori l’isola alle zone più remote, a valutare i danni delle strade, a identificare le vie migliori, a definire le priorità e identificare le persone più vulnerabili. Con pochi giorni a disposizione prima che finiscano le riserve delle varie comunità.

La distruzione di Maria è stata causata da tre fenomeni. L’uragano stesso con la forza del vento a quasi 300 chilometri orari che ha fatto volare i container del porto commerciale spostandoli di mezzo chilometro come fossero scatoloni di cartone o ha piegato i pali di illuminazione dello stadio. La forza del mare e dei fiumi che sotto l’effetto della tempesta hanno spazzato via tutte le costruzioni sulla costa e al lato dei fiumi. Dominica, probabilmente l’isola più verde e selvaggia dei Caraibi, ha più di 300 fiumi che scendono rapidi dai pendii delle montagne a picco sul mare. I fiumi straripati hanno portato a valle tutto di tutto: tronchi di alberi, case, auto, pali della luce in groviglio di cose spinte in mare il quale ha riversato tutto sulle coste. Il terzo fenomeno devastatore è purtroppo causato dall’uomo. I giorni successivi al passaggio dell’uragano sfruttando il caos della distruzione, la mancanza di luce e l’impotenza della polizia hanno lasciato spazio alle bande di sciacalli hanno assalito negozi, uffici e case private portandosi via tutto quello che potevano. Tra le prime vittime la comunità cinese abbastanza numerosa before Mària sempre vista come stranieri hanno lasciato libero il campo abbandonando l’isola per farci ritorno solo dopo qualche mese per ritrovare i loro negozi e magazzini completamente vuoti. Ma ci sono anche altri posti impensabili attaccati dagli sciacalli. Mi raccontava la moglie di uno dei nostri autisti insegnante di una scuola elementare cha avevano portato via tutto dalla scuola. Mi chiedo cosa ci faranno i gessetti, le lavagne e qualche sedia e banchi di scuola per bambini delle elementari. Purtroppo succede in tutti i paesi, poveri o ricchi che siano. Però il lato bella della storia è come la stessa insegnante andasse fiera del fatto che con l’aiuto della comunità ha pensato di rimettere in piedi la scuola prima ancora di pensare alla propria casa. Nel giro di tre mesi praticamente tutte le scuole hanno riaperto mentre gli stessi bambini tornano in case con tetti coperti da teloni e senza elettricità. Nello stesso lasso di tempo meno di un quinto delle case hanno ritrovato luce e acqua corrente. L’educazione dei figli ha priorità su tutto. Questo dà speranza a un paese piegato ma con grande voglia di riscatto.