Jorge “Màgico” Gonzalez è un mito assoluto, un’icona de El Salvador. Dopo Monsignor Romero è probabilmente il salvadoregno più conosciuto e amato in patria. El Màgico, di professione calciatore, approdò nel campionato spagnolo dopo aver portato la nazionale salvadoregna ai Mondiali Spagna ’82, seconda volta nella storia calcistica nazionale. Malgrado le magie del Màgico la Selecta, cosi viene chiamata la nazionale, prese una scoppola dall’Ungheria perdendo undici a uno. Ad oggi, ancora il record assoluto di differenza goal subiti in una fase finale dei Mondiali. Quell’unico goal del Salvador ai Mondiali non fu segnato dal Màgico, malgrado Maradona, alla domanda “qual’è il miglior giocatore di tutti i tempi?”, per non citare se stesso rispose il Màgico Gonzalez del Salvador. Questo contribuì alla costruzione del mito oltre a una tecnica, una velocità e dei numeri eccezionali che portarono il modesto Cádiz ai piani alti del campionato spagnolo alla metà degli anni ’80, e il Màgico a guadagnarsi un interessamento del Barcellona tanto che il club catalano lo portò nel tour estivo negli Stati uniti giocando al fianco di Maradona. Però il Màgico dai piedi eccezionali era anche un cavallo pazzo con poca voglia di allenarsi e tanta voglia di divertirsi. Perciò il Barcellona rinunciò e il nostro andò al Real Valladolid dove non resistette al freddo del clima e della gente. A furore di popolo ritornò al calore meridionale del Cádiz. La società gli impose però una clausola di pagare una multa per ogni allenamento saltato. Ma il Màgico giocava solo per divertimento e non per soldi, e continuò a fare tardi la sera, a non presentarsi agli allenamenti e a segnare tanti goal la domenica. Un grande talento, un grande personaggio. Che ho avuto l’onore di conoscere e giocarci contro!
Con la scusa delle celebrazioni europee del mese di maggio, Jaume, l’Ambasciatore dell’Unione Europea majorquino tifosissimo del Barcellona, organizza una partita semi-ufficiale Unione Europea-Selecta ’82. Organizziamo un’armata brancaleone di spagnoli, italiani, francesi e molti innesti salvadoregni quale rappresentativa europea per affrontare, a mezzogiorno di un sabato di maggio, i superstiti abili di Spagna ’82 con figli, nipoti, amici e affini. Tutti in attesa del Màgico il quale, come ogni star che si rispetti, appare con un’ora di ritardo con la sua lunga chioma grigia, accerchiato da un nugolo di ragazzini adoranti. Gli passano dei scarpini e maglietta, perché da vero bohémien non si porta niente. Entra in campo dirigendo il gioco da vero numero dieci. Senza fare grandi corse, anche se ancora tonico fisicamente, fa lanci e si diverte come ha sempre fatto lungo tutta la sua vita, giocando a fùtbol. Finito l’incontro, si presta ai selfie e distribuisce autografi a ragazzini e adulti, perché dopo trent’anni dal ritiro è l’unica vera star del fùtbol salvadoregno. Per la cronaca abbiamo perso cinque a uno, ho anticipato due volte il Màgico, subìto un tunnel per parte sua e guadagnato il ricordo di un grande personaggio che ama il fùtbol, il Salvador e la bella vita.
Per capire l’importanza della carriera internazionale del Màgico basti guardare dove militano attualmente i migliori calciatori salvadoregni. Dei 40 giocatori nel giro della Selecta di quest’anno solo 7 giocano all’estero: due in Islanda, uno in Turchia e il resto nella seconde divisioni degli Stati Uniti tranne uno che gioca nei San Diego Earthquakes, primeggiando come il giocatore salvadoregno meglio pagato con un ingaggio di 200 mila dollari l’anno. La maggior parte quindi sono rimasti a giocare nel campionato nazionale di 12 squadre che prevede eliminatorie, play-offs e finali, assegnando due titoli in un anno. Difficilmente un giocatore salvadoregno riesce a guadagnare più di sette mila dollari al mese mentre la media si aggira piuttosto sui due o tre mila dollari mese.
Questa stagione ha visto due volte la stessa finale: i bianchi dell’Alianza, storica squadra di San Salvador fondata dai dipendenti de Industria La Constancia birrificio principale del paese, contro i gialloverdi di Santa Tecla, una squadra ri-creata solo cinque anni fa. Santa Tecla è uno dei 14 municipi contigui alla capitale formando la Gran San Salvador. Praticamente un derby. A novembre il Santa Tecla le aveva suonate all’Alianza, rivincita a giugno che vado a vedere allo stadio tra la “Barra Brava”, gli ultras dell’Alianza lato tribuna Tevere nord, ahimè per la geolocalizzazione della tifoseria nello stadio della capitale che ospita la metà di tutte le partite del campionato. Avrei preferito la Sud. Trovo un tifo molto organizzato e molto caliente ma tutto sommato civile considerando di stare nel paese con il maggior numero di ammazzati al mondo per densità di popolazione. L’Alianza prende un’altra scoppola perdendo quattro a uno. Le lacrime a fine partita in uno stadio a novanta percento per l’Alianza si sprecano.
Il calcio è passione. Però come per tutti gli ultras in giro per il mondo, il calcio è anche guerra e la sconfitta in una partita è un dramma. Però in Centroamerica un po’ di più, tanto che nel 1969 sarà guerra vera tra Honduras e El Salvador, in nome del santo calcio.
Qualificazioni Mondiale Messico ’70. El Salvador e Honduras arrivano allo spareggio qualificazione. I rapporti tra i due paesi sono già tesi politicamente. Rivendicazioni di frontiera sopito da un accordo che permette ai contadini salvadoregni di andare a lavorare in Honduras per costituire un’essenziale valvola di sfogo per il Salvador dalla crescita demografica accelerata. Di fronte alla marea di 300 mila migranti dal confinante Salvador il caudillo honduregno Lopez Arellano revoca unilateralmente l’accordo. La tensione tra i due paesi cresce. Si gioca la partita di andata a Tegucigalpa. La Selecta viene accolta con minacce fisiche. La notte prima della partita gli honduregni manifestano di fronte all’hotel che ospita la nazionale salvadoregna, molestandola tutta la notte. L’Honduras vince uno a zero. In patria, al triplice fischio finale, Amelia Bolaños diciottenne figlia di un generale dell’esercito, per la delusione della sconfitta si spara un colpo al petto con la pistola del padre. Diventerà la prima eroina nazionale della guerra salvadoregna-honduregna.
Partita di ritorno a San Salvador, la settimana successiva. Stessa accoglienza a parti rovesciate. Però a questo giro si finisce con il morto. L’accompagnatore salvadoregno della nazionale honduregna per calmare i manifestanti agitatori, si affaccia dal balcone dell’hotel dove alloggiano i giocatori honduregni, ma viene accolto da una sassaiola e praticamente lapidato. In un clima surreale nazional-patriottico con bandiere honduregne bruciate e cori patriottici, sotto i mitra spianati dei militari, si gioca la partita. El Salvador vince tre a zero. E siccome non esisteva ancora la regola in-caso-di-pareggio-valgono-i-gol-segnati, si dovrà giocare la bella. Il post-partita vive il classico caccia all’uomo e ci scappano altri due morti honduregni. Visto la tensione tra i due paesi, la FIFA decide di far giocare la bella in Messico. El Salvador va in vantaggio. Pareggio immediato dell’Honduras. Nuovo vantaggio del Salvador. Honduras segna allo scadere. Si va ai supplementari. Segna il Salvador guadagnandosi la prima storica qualificazione ai Mondiali. La retorica patriottica è alle stelle. Tre settimane dopo il 14 luglio 1969, le truppe salvadoregne entrano in Honduras. Quattro giorni di conflitto e sei mila morti sul campo di battaglia il triste resoconto della guerra che verrà ricordata come la Guerra del fùtbol, dove lo spirito nazionalista della guerra del calcio ha dato le polveri al patriottismo della guerra guerreggiata, quella tristemente vera.