Il punto di vista dei militari – GdM2

Il secondo giorno del viaggio della memoria inizia con la visita al museo militare. Obiettivo sentire l’altra campana, quella dei militari. Ci guida il colonnello comandante della base la quale, nota di colore, ospita la papa-mobile comprata per la visita di Giovanni Paolo II che venne negli anni 80 per rendere omaggio a Monsignor Romero, da morto. Agli occhi del papa anti-comunista, l’attivismo sociale e socialista di Monsignor Romero dava meno fastidio da morto che da vivo. Nella sostanza, il rapporto tra i due fu molto freddo e s’incontrarono solo una volta a Roma.  La visita al museo si svolge molto tranquilla, di routine con foto, oggetti, cannoni, fucili di un esercito piccolo e mal ridotto che però vuole giocare nella corte dei grandi partecipando alle missioni di pace ONU in Iraq, in Mali e altri paesi. Poi quasi uno choc. Entriamo nella sala dedicata alle operazioni durante la guerra civile. Racconto semplice e unilaterale da parte del colonnello coadiuvato dalle immagini della sala. Si parla non di guerra civile ma di Campagna militare 1980-1992 con tanto di esaltazione di eroi e figure militari mitiche tra cui il Tenente Colonello Monterrosa Barrios caduto in battaglia per i militari, mentre la versione dei guerriglieri è che abbatterono il suo elicottero lontano dai campi di battaglia. Ma quest’episodio nel museo militare non viene raccontato. Si vedono solo gli attacchi dei “ribelli” e non si rivela nessun’azione o attacco contro la popolazione civile fatto dai militari. Il tutto con la parola d’ordine Patria, Dio e Ordine. Come se fosse una risposta a un attacco da parte di un paese straniero.  Usciamo senza fare praticamente domande. Il punto di vista dell’esercito è molto chiaro.

Segue visita all’ex Casa Presidenziale inserita nel programma perché vicino alla base militare ma senza un legame specifico con il tema di ricostruzione storica della guerra civile tranne il fatto che era la casa del presidente quindi anche di quelli durante la guerra civile. Fu abbandonata dopo il terremoto del 2001 che ne ha minato la stabilità.  Originariamente era un collegio per formare i professori ora è stata ripristinata e usata dalla Presidenza come posto di rappresentanza per quanto sia un edificio molto sobrio, un’elegante costruzione in stile classico centroamericano con ampie balconate e colonne di legno.  Poi senza essere previsto incontriamo un giovane architetto che lavora lì e ci racconta delle sue origini indigene e come sta cercando di recuperare il movimento per il riconoscimento dei diritti degli indigeni tra cui il diritto alla terra. Affrontiamo tutt’altro tema soggiacente alla politica salvadoregna ma completamente ignorato. Negli anni ’30 i regimi militari fecero una pulizia etnica eliminando più 30 mila indigeni per ridistribuire le terre ai produttori di caffè. Secondo il nostro interlocutore c’è ancora il 12% della popolazione indigena pipil, lenca, cacaopera, chorotega e xinca unificati dalla lingua nahuat. Lo 0.2% secondo il censimento ufficiale. Insomma un altro capitolo della propria storia con il quale il paese dovrà fare i conti semmai il movimento indigeno dovesse prendere forza, ma ne dubito.

Visita al muro a commemorazione delle vittime della guerra civile. Sicuramente l’appuntamento più emotivamente coinvolgente.  Ci guida una delle animatrici dell’Associazione delle vittime insieme a una signora che ha perso suo fratello prelevato dalla polizia proprio vicino a dove è stato eretto il muro della commemorazione nel parco Cuscatlán al centro di San Salvador. Una specie di Central Park, certo molto alla lontana.  Ma entrambe le città hanno la loro lunga lista di morti esposta su un muro, però vince il Salvador per numero. 32.000 vittime civili censiti. I militari e i guerriglieri combattenti non entrano in questo conteggio e nel muro. Probabilmente la grande maggioranza sono vittime dei squadroni della morte, della repressione della polizia e della guardia civile. Alla fine i militari erano i più docili, si fa per dire.  Ci raggiungono l’avvocato dell’Associazione e la madre di una delle vittime scomparso a 17 anni. Con la foto in mano ci racconta come sapeva che il figlio era simpatizzante ma non partecipava ad azioni, però fu prelevato e non fece mai più ritorno. Vogliono giustizia e riparazione economica e non solo morale, così dice chiaramente l’avvocato. Tutti molto degni, molto composti malgrado il peso delle emozioni sia evidente. Gli accordi di pace del ‘92 hanno previsto un’amnistia totale ma dopo 25 anni non si trova ancora pace. La corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale quest’amnistia in rispetto al principio dell’universalità e della non prescrizione delle violazioni dei diritti umani e delle libertà individuali. Si discute di una nuova legge in bilico tra chi preferisce l’amnistia per non aprire ferite nel paese e chi vuole assolutamente condannare chi si è macchiato di crimini di guerra e contro la persona. E si vorrebbe arrivarci prima delle celebrazioni dei 25 anni degli accordi di pace del 16 gennaio.

Alla fine della visita vedo Sergio, un collega salvadoregno delle Nazioni Unite e collaboratore del Coordinatore Residente che cerca un nome nella lista dei nomi incisi sulla pietra nera e mi dice: questo è mio fratello morto nell’82, più in là c’è mio cugino morto nell’83. El Salvador è un paese piccolo e tutti hanno un parente, un amico, un vicino ucciso durante la guerra civile. È un problema che riguarda tutti.

 

Il Museo Militare

 

 

Il Muro della Commemorazione delle Vittime Parco Cuscatlàn

 

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