Uragani nei Caraibi: collezione Autunno 2020.

Sabato 14 novembre, cinque del pomeriggio circa. Sono a casa a Panama giocando con Mattia. Squilla il cellulare. Appare il nome del capo. Ogni fine settimana negli ultimi due anni ho ricevuto sue telefonate, anche a ore improbabili. Quindi niente di cui preoccuparsi. Mi saluta con “viejo”, introduzione che non prospetta nulla di buono. Poi tutto di un fiato: “organizzati per andare in El Salvador, l’ufficio ha bisogno di un rinforzo. Parti domani”. Ok rispondo. Fine della chiamata. 

Motivo del rinforzo: prepararsi in caso l’uragano Iota, che si sta formando poderosamente nei Caraibi puntando minaccioso la costa nicaraguense, prosegua la sua corsa devastatrice in El Salvador con conseguenti danni ingenti. Fa parte del nostro lavoro. Prevenire, preparare, rispondere. Come organizzazione, ma anche come persone. Siamo preparati all’evenienza senza veramente esserne abituati. Fa sempre effetto dover partire un giorno per l’altro. Da qualche giorno, stavamo monitorando la formazione di questo uragano, il secondo nel giro di due settimane, prima Eta adesso Iota. Entrambi formatosi in Atlantico, passati senza lasciare danni attraverso i Caraibi orientali (vedi gli articoli Dominica 2018), seguendo la stessa traiettoria e infine colpire lo stesso punto della costa nordorientale del Nicaragua, quasi alla frontiera con Honduras. Eta è stato un uragano categoria 4 con venti fino a 250 chilometri orari. Iota al largo della costa nicaraguense si è gonfiato fino a raggiungere categoria 5, il fondo scala con venti superiori ai 250 chilometri orari. Due belle bestie che arrivano, uno dopo l’altra di per sé già un evento raro, per di più a fine della stagione degli uragani quando si pensa di averla scampata e si prospetta di stare su una bella spiaggia caraibica con cocktail in mano piuttosto che a lavorare.

Giusto il tempo di dare un bacio a Giulia e Mattia e sono all’aeroporto di Panama in partenza per San Salvador dove incontro Chiara, una collega italiana con la quale avevo lavorato in Dominica. Lei destinazione Managua per dare una mano all’ufficio del Nicaragua, già pesantemente devastato da Eta e molto probabilmente da Iota. Porta con sé il marito e il figlio di un anno! Manca un mese a Natale con vacanze organizzate in famiglia in Sicilia ma soprattutto nel suo ultimo mese di assegnazione a Panama perché a gennaio si trasferiscono in Mozambico. Una tosta! 

Nei giorni successivi Iota colpisce duramente la regione atlantica autonoma nordorientale del Nicaragua, a maggioranza popolazione indigena, una zona strutturalmente povera dove la devastazione di un’uragano la indebolisce ulteriormente. A San Salvador dovrebbe arrivare due giorni dopo. Però la forza dell’uragano si sgonfia attraversando il Nicaragua tanto da diventare depressione tropicale al momento di entrare in territorio salvadoregno. Danni inesistenti in El Salvador, per fortuna. Anche se i danni derivano non solo dal vento ma soprattutto dalle piogge che un uragano genera. Rimango comunque due settimane in El Salvador per dare una mano per l’operazione post-Eta, che quello si aveva fatto danni. Così posso scherzare con i miei ex-colleghi facendogli notare che sono un portafortuna in grado di fermare l’uragano con la mia sola presenza! 

Ritorno una settimana a Panama e riparto di nuovo questa volta per Managua, con l’accordo che comunque sarei potuto tornare a Panama il 24 dicembre. Altrimenti si prospetta un altro Natale e capodanno a lavorare, cosa che ho finito comunque per fare visti i ritmi del mio lavoro “regolare” per il Venezuela. Di Managua non ho visto praticamente niente perché nelle tre settimane di permanenza cominciavo a lavorare alle sette e mezza di mattina per finire alle otto e mezza di sera. Ho fatto la spola tra ufficio e hotel, nient’altro. Ma era necessario un lavoro così intenso per avviare una operazione di assistenza in zone molto difficili da raggiungere.

A pensarci bene, l’organizzazione per la quale lavoriamo Giulia e io chiede molti sacrifici. A pensarci bene però non è che l’organizzazione, intesa come top-management, chieda veramente. Veniamo gentilmente informati di decisioni prese. Penso a Chiara che si butta nell’occhio dell’uragano con un figlio di un anno. Penso a Giulia cha ha passato due anni sperduta nel nordest dell’Afghanistan alla frontiera con il Tajikistan, zona di conflitto. Sicuramente la dedizione di tanti colleghi di stare nei posti più remoti, nei momenti più difficili ha contribuito al riconoscimento del Nobel per la Pace.

El Salvador, Bahia di Jiquilisco, Puerto La Libertad, El Tunco.

Managua, Nicaragua.

El Salvador, grande como su gente

È arrivato il momento di lasciare San Salvador. Nuova meta Panamá, con un piede in Venezuela. Il trasloco è già in camino verso Panamá. Con Giulia e Mattia, ormai un grande ragazzo di cinque mesi, andiamo in aeroporto accompagnati da Nelson con il suo taxi giallo. Nelson è il tassista di fiducia del gruppo di amici di San Salvador. Statura media salvadoregna, corpo solido senza eccedere nel sovrappeso, occhio sveglio, sempre il sorriso sulle labbra. Gentilezza e disponibilità salvadoregna. E un gran chiacchierone. 

Nelle varie corse andata e ritorno dall’aeroporto, abbiamo parlato di tutto in quella mezz’ora di tragitto. Politica: tendenzialmente conservatore quindi elettore di Arena ma attratto dalle “nuove idee” di Bukele. Famiglia: tre figli, due adolescenti, uno più piccolo. Dio sempre presente tra i gracias a diosdios medianteprimero dios e si dios quiere a prologo e chiusura di ogni chiacchierata. Calcio: non lo segue particolarmente ma tra Real Madrid e Barcelona, scelta obbligata di ogni salvadoregno, preferisce la squadra catalana. Economia e società: temi proposti da me per capire come arriva a fine mese e il suo senso di sicurezza sociale. Quanto si affrontano temi economici e di società in El Salvador, la mente subito corre a mara salvatrucchala maralosmareros o las pandillas, quest’ultimo il termine più comune. In tre anni Nelson non ha mai menzionato las pandillas malgrado l’avessi incalzato varie volte. Se la cavava sempre con un sorriso e passava a altro. Tranne in questo ultimo passaggio.

In mezz’ora ci ha spiegato tutto. Come avvengo i contatti con la pandilla. Le loro pretese. Il loro controllo. Le loro minacce. Come ci convive. Andiamo con ordine. Nelson fa parte di un gruppo di dieci tassisti riuniti in una cooperativa informale. La propensione a associarsi in cooperative in El Salvador è molto bassa per motivi storici e per la diffidenza nel prossimo, soprattutto per la questione delle pandillas. Questa cooperativa de facto ha stabilito il suo quartiere generale in una piazza della borghesia di San Salvador, zona Escalón. Lì ogni mattina si incontrano per organizzare la giornata e prendere un caffè in compagnia, servito dai tanti ambulanti che girano con termos gigante caricato sulle spalle a mo’ di zaino e tutto il necessario per servire una brodaglia nera tipicamente americana, arricchita da una quantità spropositata di zucchero. 

Una mattina, di più di dieci anni fa, vengono avvicinati da un giovane che gli fa capire che “loro” stanno seguendo il movimento dei taxi e che, se si mettono d’accordo, non avranno problemi. È una zona controllata dalla Barrio18 o più semplicemente dieciocho. Dice che ripasserà tra qualche giorno dopo aver lasciato alcune istruzioni. Primo, non provare a denunciarlo perché “loro” sanno dove abitano, chi sono i famigliari e quant’altro su ognuno di loro. Secondo, d’ora in poi parleranno con un solo portavoce del gruppo di tassisti quindi devono scegliere chi di loro li rappresenterà. Terzo, tutti i messaggi (oggi via whatsapp) devono essere cancellati immediatamente e tanto meno fatti circolare, neanche tra di loro. Quarto, sono “loro” che si fanno vivi, anche perché cambiano numero di telefono e interlocutore in continuazione. Se seguiranno queste semplici regole di base andrà tutto bene. 

Il primo punto da negoziare è ovviamente la renta, il quantum. Ormai da dieci anni pagano dieci dollari a testa alla settimana. A dire il vero è una responsabilità in solido. Il gruppo deve fornire 100 dollari alla settimana poi internamente si organizzano come vogliono. Tanto che la cooperativa originariamente contava su una quindicina di membri, nel tempo ridotti a dieci. La renta non è cambiata. Ma neanche aumentata. Tranne alcuni bonus una tantum. Nelson si apre completamente e ci sorprende. Prende il telefono e ci mostra l’ultima richiesta, del giorno prima. “Vedete” dice “il nostro rappresentante ci ha girato queste foto per giustificare la richiesta di un aiutino speciale per far fronte a delle spese impreviste.” Nelle foto si vede un marero conciato male, probabilmente il risultato di una rissa. Occhio nero, escoriazioni varie per cui ha bisogno di cure mediche per rimettersi. Quindi cosa c’è di più normale che chiedere aiuto ai suoi “clienti”. Senza eccedere nelle richieste. Solo un aiuto di 100 dollari in più questa settimana. “E voi che farete?” chiedo. Nelson dice che pagheranno come sempre. Poi loda le capacità del loro rappresentante-negoziatore che nel corso degli anni ha saputo calmierare la renta e limitare queste richieste extra. Effettivamente è veramente incredibile come mantengano una quasi normale relazione commerciale dove la mara vende il suo servizio di protezione… protezione da loro stessi. E sono arrivati a un punto di equilibrio sul “prezzo” pattuito. Paradossale, ma il racket funziona cosi in tutto il mondo. 

Però in El Salvador questo racket è una cosa da poveri, che colpisce i poveri da parte di un manipolo di ragazzi ancora più poveri. Reclutati giovanissimi, normalmente tra i dodici e i quindici anni, cominciano con piccoli incarichi fino all’evento dell’iniziazione: prima farsi picchiare dal tuo gruppo di appartenenza, a sangue.  Se dimostri di valere ottieni la promozione e l’ultima prova di ammissione nel gruppo. Ammazzare qualcuno. Diventi uno che conta e puoi tatuarti i simboli di appartenenza: la sigla della mara e una goccia per ogni esecuzione compiuta, da tatuarsi preferibilmente in faccia, ben visibile. Più cresci nella gerarchia sociale, più guadagni prestigio, più vivi in roccaforti al centro della comunità ben protette dai tuoi subordinati. Ma il lusso non arriva con la promozione. Continui a vivere con guadagni miseri per una vita ancora più misera. Solo il prestigio e il senso di appartenenza ti gratificano, con il sentimento di vivere una vita che conti, anche se di solito finisce o molto presto ammazzato o in un carcere. Per certi aspetti la prima opzione sembra più attraente della seconda.

Chiedo a Nelson perché collettivamente non denunciano i mareros che chiedono loro la renta. Dopo vari sorrisi imbarazzati spiega che il rischio è troppo alto e tutto sommato il lavoro gli consente di pagare la renta. Meglio pagare un po’ e continuare a lavorare tranquillamente senza problemi per lui e soprattutto per la famiglia. Perchè la mara sa bene quale leva utilizzare: la famiglia appunto. Ogni richiesta viene sempre accompagnata con una potenziale minaccia a un famigliare, dopo un accurato studio su facebook e instagram per capire parentele e abitudini. I salvadoregni sanno bene cosa vuol dire esporsi pubblicamente attraverso i media sociali e come può diventare molto pericoloso.

Però quello che mi sorprende di più di questa mezz’ora di confessione è che Nelson abbia mostrato le foto del marero malconcio violando due regole di sicurezza. La prima, di gran lunga la più rischiosa: avere le foto salvate sul suo telefonino. Niente di più facile che un marero della cricca che li estorce, passando una delle mattine alla piazza per dare il consueto salutino chieda di vedere il telefonino. Un controllo-sorpresa da ispettore del lavoro in funzione. Una sentenza di morte per il contravventore o un suo caro. La seconda regola disattesa: che abbia mostrato le foto a qualcuno. Ma in fondo è la nostra ultima corsa. Siamo stranieri che traslocano, che vanno oltre, senza lasciare tracce, senza possibilità di utilizzare questa informazione. Senza dubbio Nelson si fidava anche prima ma meglio aspettare l’ultimo passaggio per svelare i segreti del paese. Prima, anche con Nelson, abbiamo scoperto un Salvador bellissimo, accogliente, colorato, variegato seppur piccolo, il più piccolo di tutto il continente americano ma, come recita lo slogan del paese, “grande come la sua gente”.

La Carovana dei migranti vista da dentro.

Che rabbia vedere quel pagliaccio di Trump fare i suoi show elettorali dove brandisce la minaccia dell’invasione dal sud di migliaia e migliaia di cattivi di ogni specie da Honduras, El Salvador e Guatemala. Sentirgli dire questi poveracci portano le peggiori malattie compreso quelle debellate come la scabbia e la lebbra. Affermare che nascondo anche i peggiori terroristi islamici. Terroristi islamici in centroamerica? Insomma un grande frullato di persone nella testa confusa del cosiddetto-presidente-con-la-p-minuscola. Quindi schierare l’esercito di 15.000 soldati, il doppio dei soldati americani in Afghanistan. Soldati con l’ordine di sparare per rispondere al lancio delle pietre, un ordine-annuncio ovviamente non eseguibile perché la Carovana deve ancora attraversare due frontiere. Soldati usati per costruire il famoso muro però fatto di persone; ha detto proprio cosi il cosiddetto-presidente visto che quello fatto di mattoni è impensabile (e inutile). Poi minacciare di sospendere gli aiuti ai tre governi del triangulo norte centroamericano, esattamente il contrario di quello che una mente normale penserebbe di “aiutiamoli a casa loro” per evitare che vengano a bussare alla frontiera. È ovvio il motivo elettorale di queste sparate. Dopo le mid-term la carovana svanirà inafferrabile, come al risveglio di un incubo mentre, nella realtà, migliaia di persone continueranno a inseguire il sogno americano in un’illusione individuale e non più collettiva. Nell’arco di un anno si stimano a più di 130 mila i migranti da El Salvador, Guatemala e Honduras verso gli Stati Uniti. Questo da la dimensione della sparata del cosiddetto-presidente-con-la-p-minuscola perché a dir tanto la carovana o meglio le varie carovane non superano insieme le 4 mila persone.

La Carovana si è formata in Honduras fomentata da un leader dell’opposizione, l’unico fermato alla frontiera con il Guatemala mentre la Carovana ha continuato a inseguire il suo sogno. Perché i governi da dove partono, legalmente non la possono fermare una processione pacifica. Se hai un passaporto e non hai commesso reati, hai il diritto di lasciare il paese. Hai il diritto di migrare. Altra cosa è che il paese di destinazione ti accetti. Visto la carovana honduregna, i salvadoregni e i guatemaltechi si sono messi in marcia anche loro. Nata spontaneamente con il passaparola su Facebook e Instagram forse. Ma sicuramente aiutata dalle organizzazioni criminali della migrazione che speculano sui sogni dei poveri. I coyotes hanno colto immediatamente l’affare con un nuovo segmento di mercato da conquistare. La fetta dei più poveri dei poveri.

Un passaggio normale dal centroamerica destino USA costa mediamente dagli sette ai dieci mila dollari, metà subito, il saldo all’arrivo o al presunto tale. La famiglia si indebita, si impegna a pagare. il coyote dopo sei mesi viene a riscuotere anche se del migrante si sono perdute le tracce, cosa che avviene una volta su tre. Ed è difficile dire di no al coyote che pretende il suo avere. I suoi argomenti sono molto convincenti, generalmente esposti attraverso una pistola calibro 12. Quindi altra richiesta di prestito allo strozzino della porta a fianco. La spirale di violenza e povertà si alimenta anche della migrazione. Intanto gli agognati soldi delle rimesse non arrivano. Mediamente la famiglia deve aspettare due anni per andare dal agente della Western Union per ritirare i soldi sudati oltre cortina dal migrante. Un “rendita” di cento forse duecento dollari mensili che statisticamente dura non più di sette o dieci anni poiché l’emigrato comincia la propria vita, un’altra vita, lontana dove i legami con il passato si affievoliscono. Ma questo è già un finale di successo. Magari utilizzando tutti e tre i tentativi generosamente concessi dal coyote. Si perché il “contratto” con il coyote prevede un pacchetto di tre tentativi. Ma solo la metà arriva alla meta dopo uno, forse due ma molto raramente dopo tre. C’è chi viene fermato alla frontiera. Chi viene assalito dalle varie gangs del Guatemala e del Messico come la feroce Zeta. Chi viene rapita e schiavizzata nel giro della prostituzione. Chi viene stritolato dalle ruote della “Bestia”, il treno merci che attraversa il Messico, cercando di saltare sopra il treno in marcia per un comodo viaggio di una settimana tra gli agguati della polizia e delle gangs. Chi semplicemente finisce il sogno per stento. Chi invece rinuncia perché non aveva idea delle difficoltà, delle frontiere, dei controlli, degli affaristi, dei pericoli ma soprattutto della distanza fisica che separa il loro villaggio dal sogno americano.

I coyote sfruttano l’ignoranza dei più poveri dei poveri, la loro disperazione. E hanno fiutato l’affare di promettere un viaggio collettivo spacciato per più sicuro e con maggiore probabilità di successo al prezzo stracciatissimo di seicento o mille dollari al massimo, vito, alloggio e simpatica compagnia inclusa. Un po’ come una gita organizzata in pullman al santuario di Padre Pio da San Giovanni Rotondo tutto incluso con tanto di offerte di meravigliosi set completi di pentole, piatti e bicchieri per solo 9,90 euro, lor signore e signori, da pagare in 36 comodo rate mensili.

Il migrante ha la pistola vera o economica puntata nella schiena e non ha più nulla da perdere e preferisce lasciarsi scivolare nel sogno-miraggio. Difficile per i governi senza risorse e con economie deboli offrire alternative. Nella risposta per arginare la Carovana, parlando con il governo ho potuto misurare la loro impotenza. I governi lanciano appelli di non mettersi in marcia, stretti tra la necessità di rispettare il diritto di chi si sta muovendo pacificamente e di dover assistere chi sta vivendo un’emergenza umanitaria senza che appaia un incentivo a migrare. Quasi un esodo con tanto di appoggio pubblico. Intanto i migranti avanzano lentamente, il cosiddetto-presidente-con-la-p-minuscola continua le sue sparate sull’invasione. E i soldati gringos aspettano un’invasione che non arriverà mai.

Santo Oscar Arnulfo Romero

14 ottobre 2018, una data storica per El Salvador. Monseñor Romero, salvadoregno, è canonizzato da Papa Francisco, argentino. Santo Oscar Arnulfo Romero Galdámez da San Miguel, El Salvador. Affare di un continente, portata mondiale. Un atto dovuto per un paese che porta nel suo stesso nome la cristianità. Ovviamente il primo santo salvadoregno.

Monsignore degli indifesi, una voce contro gli eccessi della guerra civile degli anni ’80. Molto simile a papa Francesco che lo ha voluto santo. Molto lontano da papa Giovanni Paolo secondo, il quale non è voluto andarlo a trovare malgrado il suo girovagare per il mondo, perché lo considerava troppo vicino alla guerriglia, ai comunisti.

In realtà una voce libera che non accettava che il suo popolo si trucidasse reciprocamente in una guerra civile della tarda guerra fredda. Ma i militari salvadoregni la pensavano diversamente e non gli piacevano i continui richiami di Romero al rispetto dei diritti umani. Lo assassinarono mentre dava messa un pomeriggio del marzo 1981. (vedi mio articolo). Qualche anno dopo, il mandante Roberto d’Aubuisson fonderà il partito conservatore di destra, Arena, che sarà al potere nell’immediato post-guerra.

Dopo trentasette anni, per la chiesa cattolica romana apostolica la statura immensa di Romero non si mette più in discussione. E neanche per la grande maggioranza dei salvadoregni. Solo una piccola minoranza ultra-conservatrice e militarista che ancora lo considera una figura pericolosa del comunismo. Ma per tutti gli altri è Santo Oscar Romero, e non più solo il nome dell’aeroporto internazionale de El Salvador.

Testimonianze e segni per onorare questo grande personaggio sono ovunque nel paese.

Y sin embargo, amor. (per te Flavia)

per te Flavia, in ricordo del quattordici settembre di tre anni fa.

Y sin embargo, amor, a través de las lágrimas,
yo sabía que al fin iba a quedarme
desnudo en la ribera de la risa.

Aquí,
hoy,
digo:
siempre recordaré tu desnudez en mis manos,
tu olor a disfrutada madera de sándalo
clavada junto al sol de la mañana;
tu risa de muchacha,
o de arroyo,
o de pájaro;
tus manos largas y amantes
como un lirio traidor a sus antiguos colores;
tu voz,
tus ojos,
lo de abarcable en ti que entre mis pasos
pensaba sostener con las palabras.

Pero ya no habrá tiempo de llorar.

Ha terminado
la hora de la ceniza para mi corazón.

Hace frío sin ti,
pero se vive.

di Roque Dalton (San Salvador, 1935 – 1975)

Roque Dalton, Poeta Meretìsimo, è considerato il più grande poeta salvadoregno, tra i più grandi centroamericani. Personaggio irriverente, caustico, stile diretto, vita boema. Comunista preferì l’azione della guerrilla piuttosto che il comodo ruolo di intellettuale che i suoi del partito vollero per forza dargli.

Un ribelle tra i ribelli. Ma gli costerà la vita. Fatto fuori dai propri compagni dopo una campagna denigratoria che lo tacciava come agente della CIA. Tutto montato ad arte per farlo fuori. E quello che eseguì l’esecuzione adesso lavora per il governo. E mi ha fatto impressione stringergli la mano, forse proprio quella che ha premuto il grilletto per mettere a tacere la voce forte e chiara di Roque Dalton.

Murale al Mercado Cuscatlan di San Salvador in onore di Roque Dalton e disegnato da Cristian Lopez giovane artista salvadoregno.

Il calcio è passione, il calcio è guerra.

Jorge “Màgico” Gonzalez è un mito assoluto, un’icona de El Salvador. Dopo Monsignor Romero è probabilmente il salvadoregno più conosciuto e amato in patria. El Màgico, di professione calciatore, approdò nel campionato spagnolo dopo aver portato la nazionale salvadoregna ai Mondiali Spagna ’82, seconda volta nella storia calcistica nazionale. Malgrado le magie del Màgico la Selecta, cosi viene chiamata la nazionale, prese una scoppola dall’Ungheria perdendo undici a uno. Ad oggi, ancora il record assoluto di differenza goal subiti in una fase finale dei Mondiali. Quell’unico goal del Salvador ai Mondiali non fu segnato dal Màgico, malgrado Maradona, alla domanda “qual’è il miglior giocatore di tutti i tempi?”, per non citare se stesso rispose il Màgico Gonzalez del Salvador. Questo contribuì alla costruzione del mito oltre a una tecnica, una velocità e dei numeri eccezionali che portarono il modesto Cádiz ai piani alti del campionato spagnolo alla metà degli anni ’80, e il Màgico a guadagnarsi un interessamento del Barcellona tanto che il club catalano lo portò nel tour estivo negli Stati uniti giocando al fianco di Maradona. Però il Màgico dai piedi eccezionali era anche un cavallo pazzo con poca voglia di allenarsi e tanta voglia di divertirsi. Perciò il Barcellona rinunciò e il nostro andò al Real Valladolid dove non resistette al freddo del clima e della gente. A furore di popolo ritornò al calore meridionale del Cádiz. La società gli impose però una clausola di pagare una multa per ogni allenamento saltato. Ma il Màgico giocava solo per divertimento e non per soldi, e continuò a fare tardi la sera, a non presentarsi agli allenamenti e a segnare tanti goal la domenica. Un grande talento, un grande personaggio. Che ho avuto l’onore di conoscere e giocarci contro!

Con la scusa delle celebrazioni europee del mese di maggio, Jaume, l’Ambasciatore dell’Unione Europea majorquino tifosissimo del Barcellona, organizza una partita semi-ufficiale Unione Europea-Selecta ’82. Organizziamo un’armata brancaleone di spagnoli, italiani, francesi e molti innesti salvadoregni quale rappresentativa europea per affrontare, a mezzogiorno di un sabato di maggio, i superstiti abili di Spagna ’82 con figli, nipoti, amici e affini. Tutti in attesa del Màgico il quale, come ogni star che si rispetti, appare con un’ora di ritardo con la sua lunga chioma grigia, accerchiato da un nugolo di ragazzini adoranti. Gli passano dei scarpini e maglietta, perché da vero bohémien non si porta niente. Entra in campo dirigendo il gioco da vero numero dieci. Senza fare grandi corse, anche se ancora tonico fisicamente, fa lanci e si diverte come ha sempre fatto lungo tutta la sua vita, giocando a fùtbol. Finito l’incontro, si presta ai selfie e distribuisce autografi a ragazzini e adulti, perché dopo trent’anni dal ritiro è l’unica vera star del fùtbol salvadoregno. Per la cronaca abbiamo perso cinque a uno, ho anticipato due volte il Màgico, subìto un tunnel per parte sua e guadagnato il ricordo di un grande personaggio che ama il fùtbol, il Salvador e la bella vita.

Per capire l’importanza della carriera internazionale del Màgico basti guardare dove militano attualmente i migliori calciatori salvadoregni. Dei 40 giocatori nel giro della Selecta di quest’anno solo 7 giocano all’estero: due in Islanda, uno in Turchia e il resto nella seconde divisioni degli Stati Uniti tranne uno che gioca nei San Diego Earthquakes, primeggiando come il giocatore salvadoregno meglio pagato con un ingaggio di 200 mila dollari l’anno. La maggior parte quindi sono rimasti a giocare nel campionato nazionale di 12 squadre che prevede eliminatorie, play-offs e finali, assegnando due titoli in un anno. Difficilmente un giocatore salvadoregno riesce a guadagnare più di sette mila dollari al mese mentre la media si aggira piuttosto sui due o tre mila dollari mese.

Questa stagione ha visto due volte la stessa finale: i bianchi dell’Alianza, storica squadra di San Salvador fondata dai dipendenti de Industria La Constancia birrificio principale del paese, contro i gialloverdi di Santa Tecla, una squadra ri-creata solo cinque anni fa. Santa Tecla è uno dei 14 municipi contigui alla capitale formando la Gran San Salvador. Praticamente un derby. A novembre il Santa Tecla le aveva suonate all’Alianza, rivincita a giugno che vado a vedere allo stadio tra la “Barra Brava”, gli ultras dell’Alianza lato tribuna Tevere nord, ahimè per la geolocalizzazione della tifoseria nello stadio della capitale che ospita la metà di tutte le partite del campionato. Avrei preferito la Sud. Trovo un tifo molto organizzato e molto caliente ma tutto sommato civile considerando di stare nel paese con il maggior numero di ammazzati al mondo per densità di popolazione. L’Alianza prende un’altra scoppola perdendo quattro a uno. Le lacrime a fine partita in uno stadio a novanta percento per l’Alianza si sprecano.

Il calcio è passione. Però come per tutti gli ultras in giro per il mondo, il calcio è anche guerra e la sconfitta in una partita è un dramma. Però in Centroamerica un po’ di più, tanto che nel 1969 sarà guerra vera tra Honduras e El Salvador, in nome del santo calcio.

Qualificazioni Mondiale Messico ’70. El Salvador e Honduras arrivano allo spareggio qualificazione. I rapporti tra i due paesi sono già tesi politicamente. Rivendicazioni di frontiera sopito da un accordo che permette ai contadini salvadoregni di andare a lavorare in Honduras per costituire un’essenziale valvola di sfogo per il Salvador dalla crescita demografica accelerata. Di fronte alla marea di 300 mila migranti dal confinante Salvador il caudillo honduregno Lopez Arellano revoca unilateralmente l’accordo. La tensione tra i due paesi cresce. Si gioca la partita di andata a Tegucigalpa. La Selecta viene accolta con minacce fisiche. La notte prima della partita gli honduregni manifestano di fronte all’hotel che ospita la nazionale salvadoregna, molestandola tutta la notte. L’Honduras vince uno a zero. In patria, al triplice fischio finale, Amelia Bolaños diciottenne figlia di un generale dell’esercito, per la delusione della sconfitta si spara un colpo al petto con la pistola del padre. Diventerà la prima eroina nazionale della guerra salvadoregna-honduregna.

Partita di ritorno a San Salvador, la settimana successiva. Stessa accoglienza a parti rovesciate. Però a questo giro si finisce con il morto. L’accompagnatore salvadoregno della nazionale honduregna per calmare i manifestanti agitatori, si affaccia dal balcone dell’hotel dove alloggiano i giocatori honduregni, ma viene accolto da una sassaiola e praticamente lapidato. In un clima surreale nazional-patriottico con bandiere honduregne bruciate e cori patriottici, sotto i mitra spianati dei militari, si gioca la partita. El Salvador vince tre a zero. E siccome non esisteva ancora la regola in-caso-di-pareggio-valgono-i-gol-segnati, si dovrà giocare la bella. Il post-partita vive il classico caccia all’uomo e ci scappano altri due morti honduregni. Visto la tensione tra i due paesi, la FIFA decide di far giocare la bella in Messico. El Salvador va in vantaggio. Pareggio immediato dell’Honduras. Nuovo vantaggio del Salvador. Honduras segna allo scadere. Si va ai supplementari. Segna il Salvador guadagnandosi la prima storica qualificazione ai Mondiali. La retorica patriottica è alle stelle. Tre settimane dopo il 14 luglio 1969, le truppe salvadoregne entrano in Honduras. Quattro giorni di conflitto e sei mila morti sul campo di battaglia il triste resoconto della guerra che verrà ricordata come la Guerra del fùtbol, dove lo spirito nazionalista della guerra del calcio ha dato le polveri al patriottismo della guerra guerreggiata, quella tristemente vera.

 

 

 

Vivere con 12 morti al giorno

16 marzo, 29 morti ammazzati nel paese in un solo giorno. E’ record da quando sono in El Salvador. Un numero eccezionale che spicca nella normalità di circa 10-12 omicidi al giorno. Un numero da guerra, in un paese dalle dimensioni di territorio e di popolazione pari alla Lombardia.

Di solito c’è un morto qui e un morto là nella periferia delle città, in villaggi rurali o in casolari agricoli isolati. Quel giorno invece due affronti di gruppo. Uno in San Martin nella periferia di San Salvador, una di quelle difficili dove le due bande principali di mareros si affrontano per questione di controllo del territorio, lasciando 9 morti sul campo di battaglia.

L’altro, più inquietante, nel centro di San Salvador nell’infinito mercato a cielo aperto, vero cuore commerciale dell’economia informale del paese. Prodotti cinesi, merce rubata, artigianato vero o falso, finta merce di alta qualità tedesca o italiana (il marchio Made in Italy va sempre forte) vengono scambiati da micro-commercianti che difendono giorno e notte il loro metro quadro di strada, fonte di reddito conquistata con grande fatica. In questo mondo pulsante di attività, un paio di pandilleros assaltano un commerciante. Reazione delle guardie di sicurezza privata che vigilano la zona ma tre di loro vengono uccise nello scontro. I vigilantes si organizzano per una rappresaglia immediata, scovano gli autori e ne uccidono 3. Occhio per occhio, dente per dente è la legge della strada. Totale 6 morti ammazzati in una tranquilla mattinata di sole in San Salvador. Metodi da guerriglia dove i mareros attaccano e i vigilanti rispondono per difendere il proprio datore di lavoro. La polizia e l’esercito stanno lì a guardare o per limitare i danni o per mancanza di mezzi o perché alcune zone sono off limits.

In mezzo, la popolazione che sopravvive economicamente e deve comunque pagare per una protezione territoriale, assicurata dai mareros o vigilantes che siano. E non è una vita facile che comincia molto presto la mattina e finisce al calare del sole quando ci si chiude in casa per evitare le insidie della notte tracciate in una mappa invisibile ma conosciuta a tutti, delimitando le zone dove non andare e definendo le regole di convivenza.

Però ci sono anche segni molto concreti del controllo del territorio. Due i segni più evidenti e facili da riconoscere. Una semplice grande scritta sui muri, di solito all’ingresso della comunità o del quartiere. MS o MS13 o 13 per la Mara Salvatrucha 13 e un semplice 18 per la Mara Bario 18. Poi l’altro segno, più folcloristico, sono le scarpe appese ai cavi della luce sempre in punti strategici ben visibili. Non scarpe qualsiasi. La marca e il modello definiscono il marchio di appartenenza, ovviamente ripercorrendo le contrapposizione tra le grandi marche mondiali. Se appartieni a una mara sei nike o adidas o puma e non si scherza. Sono sicuro che i rispettivi markettari delle grandi marche abbiano pensato a usare i mareros come testimonials. Per la cronaca, nike è MS13 mentre adidas identifica la 18, però non è così semplice e ci molte più sfumature che cambiano nel tempo e rimangono indecifrabili al di fuori della gang.

Un altro segno di controllo del territorio è l’attuazione stessa del controllo del territorio. All’ingresso della comunità hai un ragazzo con un telefonino in mano che manda messaggi sui movimenti d’ingresso e uscita per allertare il vertice locale se ci sono altri gruppi che provano a entrare, polizia o qualsiasi altro potenziale pericolo. Tutto in maniera molto discreta però pronti a tirare fuori le armi se necessario. Ecco, le armi. Se ne vedono tante tra polizia, esercito, vigilantes privati e cittadini privati. Come quel giorno che stavo sulla spiaggia con Axel un amico del gruppo del kite che ha appena comprato un jet-surf, un surf da onda con un motore a getto tipo jet-ski. Il giocattolino (da 14 mila dollari) pesa abbastanza e per caricarlo sul carrellino da spiaggia ci aiuta la sua guardia del corpo pistola infilata nel costume. La pistola è normalità nel paese da 12 morti al giorno.

Così vivono i salvadoregni dalla classe media alla super-ricca. Vivono in una bolla protetta da guardie, barriere di protezione e strategie di “evitazione”. Si va solo in certe zone, ci si muove tra una zona e l’altra galleggiando con grandi SUV sopra le zone povere e disperate. Si evita in tutti i modi il contatto con il pericolo. Due aneddoti. Uno di una mia collega di 26 anni nata a San Salvador la quale, in tutta la sua vita, non è mia andata nel centro dove comunque ci sono la cattedrale e qualche edificio storico da vedere. I suoi genitori glielo proibirono e la questione non si pone. Un secondo esempio è una del gruppo di bici che quando un sabato facemmo un’uscita per salire fino alla Puerta del Diablo, zona difficile raggiungibile con una bellissima salita di 15 chilometri, a tratti molto difficile però con ricompensa finale di un vista spettacolare su San Salvador. E mi racconta come da piccola veniva sempre qui su, che però non aveva mai portato i suoi figli perché troppo pericoloso. Quel giorno si stupì che in fondo l’avrebbe potuto fare. Ecco, per vivere i salvadoregno si chiudono in una bolla, a ogni classe sociale corrisponde la sua bolla.

Una quindicina di giorni prima della mattanza dei 29 morti, il paese si era emozionato per la morte di Gustavito, un simpatico ippopotamo tra le attrazioni principali dello zoo di San Salvador. Era l’unico del paese e fu un regalo del Guatemala perché d’ippopotami ne ha ancora alcuni. Il paese si emoziona quindi davanti al Gustavito agonizzante per ferite subite da ignoti, e dopo qualche giorno non ce la farà. L’emozione è tale che la Ministra dell’Ambiente andata allo zoo a verificare le condizioni uscendo lascerà dichiarazioni sull’orlo delle lacrime che per l’ippopotamo non c’è più niente da fare. Un mese dopo, la ministra stessa racconterà a cena a casa mia che sentiva così forte l’emozione collettiva per un atto così barbarico che non ha potuto trattenere le lacrime. Le lacrime di un paese dalle grandi contraddizioni. Speriamo che giustizia sia fatta per Gustavito, ma anche per i 29 morti di un normale giorno di marzo.

 

    

 

Il colore della politica

Riunione al municipio di San Francisco Gotera, le foto esposte all’ingresso non lasciano dubbio sull’orientamento politico del sindaco. Nell’androne, tra i comunicati delle persone ricercate, il calendario del torneo di calcio sono appese in bella mostra le foto di Lenin, Fidel e dell’immancabile Che. Il messaggio è chiaro e riprende il monito di Lenin: “Un buon comunista si alza tutte le mattine con il piede sinistro”.

Ci accoglie il sindaco con una camicia rossa bandiera sovietica e sospetto che i quadri esposti siano frutto di un suo editto. Ci fa accomodare nel suo ufficio e i dubbi diventano certezza. Il nostro simpatico sindaco ha una chiara preferenza romantica per il Che, ricordandosi che il duro lavoro giornaliero di sindaco di una piccola cittadina salvadoregna in fondo in fondo ancora insegue il sogno ribelle della rivoluzione permanente.

Più che culto della personalità l’essere esposti tra informazioni municipali e locandine pubblicitarie normalizza questi personaggi storici in nome dei quali probabilmente il sindaco ha combattuto la sua guerra nelle montagne di Morazàn.

I segni della politica o meglio dell’appartenenza politica sono sempre molto visibili in tutto il paese. Entrando in qualsiasi villaggio, paesino o cittadina si capisce subito il colore di preferenza o chi comanda. Rosso per il FMLN, blu-bianco-rosso per Arena e arancione per GANA, il terzo partito di centro-destra che nasce dalla fusione della democrazia cristiana e del partito conservatore. L’espressione del colore può prendere varie forme dalle classiche bandierine ai più inusuali striscioni di benvenuto a nome del sindaco del tal partito o veri e propri murales retaggi dell’ultima o di molte elezioni fa. E sono anche il segno della stabilità dell’orientamento visto che molto spesso sono sbiaditi e chiaramente intoccabili.

Questi segni si confondono con quelli dei mareros ma questo è un altro tema…

  

Sabato 3 dicembre

Il 3 dicembre il cielo di San Salvador s’illumina di fuochi di artificio. Uno spettacolo che durerà più di mezz’ora. Forse i giochi di luce dei fuochi sono un po’ ripetitivi però un grande investimento. Effettivamente la bacheca del condominio aveva annunciato con dieci giorni di anticipo che avrebbero aperto la terrazza condominiale per l’occasione. Con i suoi 25 piani il terrazzo è uno dei punti più alti della città. Vista bellissima un poco sopra le luci della città, tanto che alcuni giorni prima con alcuni vicini ci eravamo organizzati per vedere il big moon che poi tanto big non fu. Quindi arriva il 3 dicembre e puntuali come svizzeri partono i fuochi alle 7 di sera proprio mentre esco dal lavoro. Davanti all’ufficio noto una famigliola con figlio di 10 anni tutti accomodati sul tetto della propria macchina per godersi lo spettacolo. Un evento insomma.

Ma che cosa si celebra il 3 dicembre? L’annuncio in bacheca diceva per “dare inizio alle festività natalizie.” Certo per un paese cosi permeato dalla religione cristiana è quasi comprensibile però cercavo di capire a quale evento storico-religioso fosse collegato. Bene, la tradizione risale a 25 anni fa quando la catena fastfood Pollo Campero decise di offrire alla città dei fuochi d’artificio, ovviamente con costi fiscalmente deducibili perché considerati un’attività a favore della collettività. Da allora il primo sabato di dicembre di ogni anno il Pollo Campero affitta lo stadio principale dal quale organizza una mitragliata di fuochi e grande kermesse a base di pollo fritto. E’ un’immagine emblematica de El Salvador: celebrazioni religiose e fastfood mischiati in un’unica cultura.

Si dà così inizio al consumismo sfrenato rigorosamente sponsorizzato dalle grandi marche. Si vede che il successo della tradizione pollo campero ha spinto altre marche a trovare delle attività a favore della collettività. Infatti tutte le principali piazze dei quartieri alti della città vengono “sponsorizzate” e decorate con tanto di cartelli che non lasciano dubbio sull’identità del babbo natale della piazza. Una piazza però merita una menzione speciale: quella di Arena situata tra la chiesa dei mormoni e il centro commerciale multiplaza, tanto per rimanere in tema religioso-commerciale. Arena è l’attuale principale partito di opposizione fondato nel 1981 dal Maggiore Roberto D’Aubuisson, per far fronte alla montata comunista e appoggiare il governo dei militari. Nel suo curriculum D’Aubuisson ha come punto di onore l’accusa da parte della Commissione delle Nazioni Unite per la Verità per El Salvador di essere stato il mandante dell’uccisione di Mons. Romero, finanziando e organizzando personalmente lo squadrone di esecuzione.

La bandiera di Arena uguale a quella olandese sventola tutto l’anno sulla piazza. E in periodo natalizio come tutte le altre piazze si veste a festa, sponsorizzata da una società che produce yoghurt. Altra immagine emblematica de El Salvador, piccolo paese dai grandi contrasti: una piazza politica con chiari messaggi politici tipo “Patria Si, Comunismo No” partecipa alla orgia commerciale natalizia.

E per ribadire il periodo natalizio e non farsi mancare niente della cultura il venerdì successivo c’è stato il Black Friday, eseguito in perfetto stile gringo.

 

  

         

     

      

Election Day After

Riflessioni sulla giornata tra il Dipartimento Usulutàn e San Salvador che in qualche modo presenta alcune analogie sugli eventi mondiali e il piccolo mondo de El Salvador.

La giornata comincia con la conferma dell’elezione di Donald Trump che già avevo sentito venire la sera prima ma ero andato a dormire sperando in chissà quale miracolo. Quindi sveglia in San Miguel, terza città del paese, per visitare un progetto in Jiquilisco insieme al nostro partner tecnico Istituto Interamericano de Cooperación para Agricultura. E’ un progetto di costruzione di resilienza per piccoli produttori agricoli per garantire che abbiamo accesso a cibo tutto l’anno con dieta diversificata perché oltre al grano basico producano anche verdura che prima non producevano. Dobbiamo aiutare la comunità, con un progetto gestito soprattutto da donne, a realizzare un piccolo sistema di irrigazione per annaffiare l’orto comunitario prendendo l’acqua da un fiumiciattolo che sta 600 metri più giù. Le case del villaggio non hanno acqua corrente, non hanno porte, dormono in un amaca, la cucina è a legna, altamente tossica per i fumi.

E’ una realtà molto diversa da quella che conosco. A dire il vero le donne vestono all’Occidentale. La leader del gruppo a una maglietta bianca con delle paillettes e la scritta LDC come se fosse una marca conosciuta, ma non penso lo sia. Gli uomini hanno un immancabile cappello di paglia come quello dei cowboy e un grande machete dentro un fodero di cuoio con tante frange attaccato al cinturone. Tutti hanno un telefonino. Quindi discorsi, saluti, ringraziamenti, intervista per il video che verrà prodotto e si ritorna alla capitale che in realtà è  solo a due ore di macchina — nostra con il trasporto pubblico può diventare mezza giornata. Ufficio, casa, doccia uscita al prossimo appuntamento alle 7.30 di sera che già rappresenta età un’ anomalia di per sé perché sono rari gli eventi serali.

Serata per il lancio del sistema para un internet más rápido con tecnología LTE della Movistar. No so cosa voglia dire LTE però il marketing e la comunicazione mi fanno capire che deve essere qualcosa di molto fico e di molto rapido detto in un linguaggio pubblicitario che conosco. Lancio tipo prodotto Apple con il giovane CEO spagnolo di Telefonica El Salvador che spiega che negli anni siamo passati dalla tecnologia 2G dove si trasmetteva un giga in 2 secondi 45 millesimi a quella LTE dove la stessa informazione passerà in 0.5 millesimi di secondo. Veramente una cosa fica nel mio mondo. Non conosco nessuno nella serata e non parlo con nessuno anche perché tutto il tempo c’è musica techno a palla. Però immagino che ci sia tutta la crème del mondo corporate de El Salvador.

Ecco oggi ho visto due mondi che stanno uno a fianco all’altro, che si vedono, si conoscono ma non si capiscono, che parlano la stessa lingua ma non parlano lo stesso linguaggio. Uno ha bisogno di acqua corrente in casa mentre l’altro ha bisogno di internet sempre più veloce. Uno ha votato per Trump perché paradossalmente vuole conservare quello che ha o vorrebbe avere. L’altro ha votato per Clinton perché vuole muoversi rapidamente in un mondo che cambia rapidamente. Ma i due mondi non si capiscono e soprattutto non hanno nessuna intenzione di conoscersi.