Somiglianze dominicane

In cinque mesi sono stato paragonato nell’ordine: a Superman, a Burt Lancaster e due volte a Paul McCartney. Da persone che ho incontrato o da semplici passanti per la strada. È un classico: le persone della stessa razza (bianca in questo caso) si somigliano tutte viste dalle persone di un’altra razza (nera). La cosa funziona cosi in entrambi i sensi poi con il tempo l’attenzione ai dettagli si affina. La somiglianza con Superman mi onora. Visto che posso scegliere tra 11 attori interpreti del ruolo, scelgo il mitico Christopher Reeve anche se probabilmente mi avranno probabilmente visto come una copia venuta male di Tom Welling.

Molto più stravagante il commento-somiglianza con il vecchio Burt. Ammetto che ho dovuto googolare per controllare le fattezze del cow-boy attore. L’apparentamento è stato fatto da un anziano ospite di un centro di accoglienza in una scuola di Roseau. 79 anni, pochi denti, sguardo sveglio e mente ancora molto lucida. Bisogna convincerlo, insieme ad un’altra ventina di ospiti dell’edificio scolastico, a spostarsi per permettere agli studenti di tornare a scuola. Dopo una discussione animata riusciamo a rassicurarlo che il governo, con il sostegno delle organizzazioni internazionali, troverà una sistemazione adeguata che gli permetta una vita decente. Quando la tensione si abbassa al momento dei saluti mi dice “e poi tu assomigli a Burt Lancaster, mi posso fidare di te” e giù grandi abbracci e pacche sulle spalle. Operatori umanitari non siamo né missionari volontari né tanto meno Superman o cow-boy però un piccolo riconoscimento per il lavoro fatto fa indubbiamente piacere. Cosi lascio Dominica con la sensazione di aver compiuto qualcosa per delle persone meravigliose, pacifiche e che combattono la lotta giornaliera di sopravvivenza individuale e collettiva arrampicati in un piccolo scoglio in mezzo all’oceano atlantico.

  

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Loubière, Parish of Saint George, Dominica

Un sabato mattina decido di prendermi qualche ora per uscire dalla routine casa-ufficio e decido di andare a fotografare la forza devastatrice dell’uragano. Correndo la mattina partendo da casa raggiungevo Loubière, un piccolo villaggio cinque chilometri a sud di Roseau che si sviluppa ai margini di un fiume. Mi aveva colpito il livello di distruzione. Scopro essere anche il villaggio dove vive il nostro autista Dwight, il quale mi ha raccontato ancora sotto choc come tra i dispersi di Maria ci fosse il suo miglior amico-vicino con la moglie. Verso le sette di sera quando l’uragano cominciò a salire di intensità e con esso il fiume che si gonfiava aveva detto all’amico di rifugiarsi a casa sua, più alta sul fiume. Avevano letteralmente messo in salvo tutta la famiglia con le tue bimbe piccole tirandoli fuori con cime. Poi nell’occhio del ciclone l’amico e la moglie avevano deciso di tornare a casa per prendere delle cose. Non hanno mai più ritrovato i loro corpi. Maria ha colpito Dominica per otto dalle nove di sera alle cinque del mattino. Una nottata d’inferno.

Armato della mia Leica vado quindi a fotografare la chiesa devastata, la casa distrutta (che poi scoprirò essere quella dell’amico di Dwight), al ponte spazzato via. Un po’ più in là dalla casa vicino al ponte mi invita ad entrare in casa un signore, capelli lunghi con le trecce e barba lunga anche quella con le trecce. Un vero rastafarian, come tanti sull’isola. Mi fa vedere la casa distrutta. Mi mostra dove si sono rifugiati al piano di sopra per sfuggire al fiume mentre il tetto volava via. E parliamo per due ore. Sul perché è successo, sul cambio climatico. Sulla ricostruzione, su quello che deve fare la gente. Su quello che fanno i politici. Sull’importanza degli aiuti. Sul fatto che bisogna rispettare la natura e che eventi naturali di questa forza sono un segnale affinché la rispettiamo più. Sulla necessità di ricostruire bene e che seguirà le istruzioni degli esperti e del governo perché anche se costerà di più è sempre meglio che perdere tutto. Sull’idea di business di vendere erbe curative ai turisti perché bisogna vivere in armonia con la natura. Sul fatto che pretendiamo troppo dalla madre terra mentre ci potremmo accontentare di poco. Il fratello si aggrega alla discussione. Tiene un bel cannone in mano alle nove del mattino! però ha un sguardo magnetico con degli occhi chiari che contrastano la pelle più scura. Sono entrambi lucidissimi e simpaticissimi, i fratelli Albert e Anthony Joseph. Il maggiore Albert mi mostra orgoglioso le foto della sua carriera di cuoco sulle navi da crociera. Fiero nella sua elegante divisa quasi sembra un ufficiale di marina. Dopo 30 anni di lavoro aveva raggiunto il grado più alto capo-cuoco. Ora in pensione con il sorriso con pochi denti rimasti ma tante idee. Maria ha piegato lui e suo fratello ma non li abbattuti. I fratelli Joseph sono pronti a ricominciare da capo. Hanno perso tutto tranne la voglia di vivere, in armonia con la natura.

Qualche mese dopo, di ritorno a Dominica per la valutazione del progetto, incontro Albert in una riunione con una decina di beneficiari dell’assistenza. Il suo aspetto rastafarian contrasta con gli altri e attira l’attenzione. Prende la parola per ultimo. Con voce calma ma profonda spiega che i soldi ricevuto sono importanti ma meno del sostegno psicologico e del sapere che la gente di Dominica non è stata abbandonata. Poi comincia a raccontare, costruendo la storia in un cresecendo, che ogni mattina vedeva un tipo correre fino al ponte vicino a casa sua. Scambio di sguardi e di saluti veloci. Poi un giorno il tipo si ferma li a fare foto e lo invita in casa e cominciano a parlare per tanto tempo, di tutto. Lo scambio umano è quello che conta, dice. Tutti i partecipanti alla riunione, compreso il mio capo basato a Panamá, si chiedono dove Albert vuole andare a parare. E da consumato attore si alza dicendo che questo tipo è qui oggi e lo voglio salutare e ringraziare. Si alza e ci abbracciamo. Un personaggio unico Albert che saluto con gesto rastafarian, pugno chiuso e due colpi sul cuore in segno di riconoscimento!

 

 

 

 

 

Il Carnevale nel Caribe

Si arriva sempre in un posto nuovo con il proprio bagaglio e riflessi culturali. Dominica è un paese molto religioso, cristiano prevalentemente protestante, con minoranze evangeliche ma anche cattoliche. Infatti per l’emergenza in proporzione alla dimensione del paese si sono ritrovate molte ONG con forte connotazione religiosa da quelle cristiane occidentali, ai testimoni di Geova fino a un ONG israeliana molto attiva. Manca all’appello un’organizzazione musulmana malgrado ci sia una comunità islamica abbastante importante. Quindi per natale e capodanno mi aspettavo grandi festeggiamenti. Grande delusione invece! Da buon paese cristiano il natale di Cristo si festeggia con messa di mezzanotte, giornata in famiglia, pochi regali e qualche fuoco di artificio. Il capodanno zero! Un giorno qualsiasi dell’anno. Si va a dormire come di consueto alle dieci di sera (come in tanti paesi tropicali dove fa buio alle sei ci si sveglia presto e si va a letto presto). Capodanno esiste solo perché segna l’avvicinarsi del vero, atteso evento annuale: il Carnevale. Che si comincia a festeggiare un mese prima quindi già a gennaio. Però in Dominica nulla è proprio “normale”.

Un venerdì vado tranquillo verso mezzanotte quando in piena notte vengo svegliato da musica da discoteca a tutto volume tanto da far sembrare che la musica venga dalla casa a fianco alla mia stanza. Sono le quattro del mattino e mi affaccio al balcone. Vedo gente per strada che fa la fila per entrare in un locale dall’altra parte del campo di calcio che sta al lato della palazzina dove vivo. La festa va avanti fino alle sei e poi smette. Il giorno seguendo mi dicono che per un mese fino a carnevale ci saranno feste, quasi un allenamento per arrivare preparati al grande Evento. E ci prepara dalle quattro alle sei del mattino con musica sparata a migliaia di decibel che si espande in tutto il quartiere. Le serate successive, visto che era impossibile dormire, decido di partecipare e vederlo dal vivo. La serata è un deejay che suona cover cantandoci sopra, arrangiando musica disco ma senza trascinare veramente il pubblico a ballare che infatti balla poco. La musica ad alto volume è comunque una tradizione di Dominica. Generalmente sparata da casse mostruose montate nei bagagliai delle macchine. I venerdì sera, unico vero giorno di festa della settimana, tutti i giovani dell’isola si riversano nella capitale girando più volte in macchina per le due strade principali con musica a tutto volume, facendo concorrenza con i decibel dei tre locali principali con le casse rivolte in strada. Un’accozzaglia di suoni annaffiata da rum artigianale.

La preparazione verso il grande evento prevede anche un festival della canzone, che ho la possibilità di seguire dal vivo, visto che si svolge sul campo di calcio vicino casa. Ogni sabato per quasi due mesi una sessantina di concorrenti si affrontano fino ad arrivare a una selezione dei dieci migliori per la grande finale. È il Calypso, un vero e proprio Sanremo della Dominica. I cantanti devono presentare inediti e vengono valutati da una giura di specialisti, in base al testo, la musica e la presentazione artistica. Per un mese le radio passano a ripetizioni le nuove canzoni, trasmissioni intere ne fanno la critica, prevedono finalisti e vincitore, tutti ne parlano per strada facendo il tifo e aspettando la finale. Che si svolge il sabato prima del giovedì grasso dalle sette a mezzanotte, quest’anno sotto una pioggia ininterrotta tanto che il pubblico immobile affonda nel fango. Nessuno balla perché alla fine la parte più importante è il testo. La musica va in secondo piano e tutti ascoltano attentamente i testi a volte ironici, a volte di denuncia politica. In un paese cosi piccolo dove tutti si conoscono, dove il primo ministro conosce per nome tutti, la loro vita (e la loro preferenza politica), il Calypso diventa l’espressione politica di opposizione e di denuncia più importante. Quest’anno il tema ricorrente era ovviamente Maria e come venissero spesi i soldi degli aiuti e della ricostruzione. Quest’anno the King of Calypso è stato Bobb con una canzone-denuncia sulla libertà di espressione del Calypso. Buon musicista Bobb, eclettico, che ho conosciuto perché ha fotografato i nostri eventi, è riuscito a vincere dopo tanti tentativi. E’ diventato personaggio dominicano dell’anno.

Finito il Calypso, arriva finalmente il Carnevale. La giornata clou è il martedì grasso. Però i festeggiamenti cominciano già il lunedì, ovviamente alle 4 del mattino. Concerto a tutto volume, stessa musica, stesso schema delle feste preparatorie con deejay che suona cover e canta. Però questa volta non ci si ferma alle sei del mattino ma si va ad oltranza. Il perfetto partecipante del Carnevale ci arriva preparato, molto idratato, abbigliamento da festa, scarpe da fango e soprattutto zainetto tipo ultra-marathoner con porta liquido incorporato e tubicino per un’idratazione continua, acqua o rum che sia. Per due giorni, entrambi festa nazionale, tutta l’isola viene travolta da un turbinio di gente che avanza in una processione con musica a tutto volume procedendo in un unico movimento in piccoli passi uno-due, uno-due a ritmo di Suka. Il Suka, il ballo dal richiamo sessuale esplicito. La dama si pone davanti al suo cavaliere porgendo il proprio fondo schiena ben appoggiato alla zona inguinale maschile. La dama poi fa scendere lentamente il suo busto fino a novanta gradi, mentre il cavaliere rimane inerme (e per quanto possibile impassibile). E avanzano, uno-due, uno-due. La dama può rimanere con lo stesso cavaliere oppure scegliere di appoggiare il suo fondo schiena contro un altro cavaliere. Cosi come il cavaliere può scegliere di offrire il proprio inguine a un’altra dama. E cosi via uno-due, uno-due, tutto il giorno in un turbinio di gente, sotto la pioggia battente o sotto il sole cocente fino a notte. Il martedì, giornata finale, si ricomincia solo che questa volta con la parata dei carri e la ricchezza dei travestimenti. E un tasso alcolico molto più alto. Tutto sommato, malgrado musica e alcol inebrianti il grande ballo di massa si svolge senza grandi incidenti. Al minimo segnale di violenza, la processione e la musica vengono fermati finché ritorna la calma. Tutto è permesso al Carnevale, grande valvola di sfogo dell’isola, senza gli eccessi violenti di altri paesi. Tanto che Dominica è tra i paesi meno violenti dei paesi caraibici, che contano 15 dei primi 25 paesi con il maggior numeri di morti ammazzati al mondo. Il paradiso da cartolina non è sempre cosi paradisiaco per chi ci vive tutto l’anno.

          

     

Nazionalismo, Dominica.

Il 3 novembre 2018, Dominica festeggia i quarant’anni di indipendenza. È una nazione ancora molto giovane, considerata a reddito medio-basso, fa parte del Commonwealth rimane quindi nella sfera economica britannica. Economia debole prevalentemente agricola, ma anche turismo di nicchia, sfruttando la ricchezza e la natura incontaminata, per competere con la sua diversità di offerta la grande concorrenza delle altre isole caraibiche. Piccolo paradiso fiscale, qualche servizio importante quali call centers anche per gli Stati Uniti grazie all’inglese ormai prevalente tra i giovani che stanno abbandonando il creolo.

I Dominicani sono giustamente orgogliosi del loro paese anche se l’indipendenza non ha portato i risultati sperati in termini di sviluppo economico e distribuzione della ricchezza. Le grandi famiglie che tengono il potere economico sono di origine palestinese o siriana, alcuni ebrei e gli immancabili cinesi che si stanno impossessando del piccolo commercio. Inglesi incredibilmente spariti.

Sono arrivato pochi giorni prima del 3 novembre, ovviamente festa nazionale con tanto di parata para-militare, perché Dominica non ha un esercito vero e proprio, e balli organizzati nello stadio nazionale di cricket, lo sport nazionale e retaggio del colonialismo inglese. Chiedo a Greg il gestore dell’Hotel Flamboyant (scintillante solo di nome) come e dove si farà festa pensando già di andare a fare baldoria. Greg mi risponde serio che non festeggia un evento che rappresenta invece una sciagura, voluta dai politici e non dalla gente. E mi dice ancora più serio. “E poi guarda la carta a nord c’è Guadalupa, a sud c’è Martinica quindi Dominica dovrebbe essere francese”. Dal punto di vista dell’opportunismo economico personale non fa una grinza. Dominica è l’isola più povera dei Caraibi (escluso Haiti) vicina alle isole probabilmente se non più ricche ma che beneficiano del sistema di protezione sociale di una potenza economica quale la Francia.

Dal punto di vista storico non ha ovviamente fondamento. Inglese dal 1763 quando fu ceduta dai francesi dopo la sconfitta della guerra dei sette anni. I francesi provarono varie volte a riconquistarla anche sotto Napoleone nel 1805 grazie all’appoggio della popolazione che si sentiva francese dopo averla conquista dagli spagnoli all’inizio del XVIII. Dopo un secolo e mezzo incredibile il fatto che resista un sentimento pro-francese. A dire il vero gli spagnoli non provarono a difendere l’isola perché non la conquistarono proprio del tutto. La popolazione indigena, i Kalinago, divennero famosi per l’abilità guerriera e la resistenza ai primi conquistatori che avvistarono l’isola una domenica. Da qui nasce il nome, come per la repubblica dominicana. Cosi come le due dominiche sono associate dal nome lo sono anche dal fatto di essere le uniche isole caraibiche a ospitare ancora delle popolazioni indigene pre-colombiane.  I Kalinago di Dominica sono circa 6 mila abitanti costituendo la comunità indigena più grandi dei caraibi. Il capo attuale dei Kalinago, Chief Charles Williams o semplicemente Chief, mi ha spiegato come sia nell’ordine delle cose che l’appartenenza alla comunità sia trasmessa dagli uomini. Se un uomo sceglie una donna fuori dalla comunità la discendenza sarà kalinago mentre se una donna si sposa con un non-kalinago di fatto abbandona la comunità.

Incredibile che dopo più di tre secoli ancora si possano riconoscere i Kalinago rispetto agli emigrati post-colombiani tutti discendenti degli schiavi dall’Africani occidentale e centrale. I Kalinago sono chiari praticamente bianchi dai tratti somatici orientali. Sembrano giapponesi o filippini. Molti portano ancora fieri i nomi di origine francese come Peltier o Graneau. Insomma Dominica è una piccola isola in un grande frullato di storia tra spagnoli, francesi, inglesi, africani e asiatici. Il senso di orgoglio della discendenza indigena è molto forte. Avere una pelle più chiara per quanto mischiata nel corso dei secoli è motivo di orgoglio sottolineato dalla puntualizzazione “I’m coming from the Territory” o un ancor più forte legame con “I live in the Territory”.

 

Dominica, uragano Maria.

Arrivo in Dominica un mese e dieci giorni dopo Hurricane Maria, dopo due giorni di viaggio da San Salvador passando da Panamá poi Trinidad and Tobago da dove faccio il “hop-ing” di alcune isole dei caraibi orientali da cartolina quali Grenada, Saint Vincent, Saint Lucia fino ad Antigua. Da Antigua volo umanitario verso meta finale Roseau, la capitale di Dominica. Attenzione! a non confondere Dominica con Repubblica Dominicana. Sta al lato opposto dei caraibi (sud orientali) e si parla inglese e non spagnolo. È difficile trovarla sul mappamondo poiché è il ventiduesimo stato indipendente più piccolo al mondo battendo di poco Tonga, Singapore e Andorra ma soprattutto il quattordicesimo più piccolo per popolazione con i suoi 76 mila abitanti. Quindi un sasso buttato nel mare dei caraibi che si trova esposto a quanto pare più delle isole vicine a tutte le possibili calamità naturali quali terremoto, tsunami, eruzione vulcaniche (ce ne sono 11!), smottamenti perché ha montagne molto ripide a picco sul mare.

Dominica è stata investita da due eventi devastatori in due anni. Tempesta tropicale Erika nel 2015 e Uragano Maria la notte tra il 18 e il 19 settembre 2017. Maria, da pronunciarsi con l’accento sulla “a” ha colto il paese di sorpresa. Delle calamità naturali immediate, gli uragani sono quelli più prevedibili e lasciano più tempo per mettersi al riparo. Però Maria non ha lasciato scampo. In meno di dodici ore è passato da uragano di categoria 1 a categoria 5 (scala massima), cioè venti a 140 km/h raddoppiati a più di 280km/h investendo l’isola da sud-est a nord-ovest e guadagnandosi il primato di decimo uragano atlantico più violento di tutti i tempi. Sulla sua corsa ha lasciato sul campo 70 morti, case spazzate, tetti divelti e ponti distrutti. Poi ha continuato la sua attività distruttrice verso Puerto Rico, devastandola.

Quando sorvolo l’isola a bassa quota con il piccolo bimotore a elica, la cosa che più colpisce è il grigiore dell’isola. Gli alberi sono completamente spogli. Le palme hanno perso la parte superiore. Alberi centenari abbattuti, sradicati. La foresta tropicale sembra fatta di tanti spunzoni come una spazzola per i capelli, grigia e vecchia. Avvicinandosi vedendo meglio le strutture, la seconda cosa che colpisce è la quantità delle case senza tetto. Infatti le inchieste per valutare i danni che faremo in seguito confermano che il 90% delle case hanno avuto danni, di cui il 30% totalmente distrutte e un altro 30% molto danneggiate cioè senza più servizi, tetto e forse neanche una stanza per dormire. In sostanza un disastro che ha colpito tutta l’isola. Ed è quello che mi colpisce di più: l’uragano ha investito democraticamente tutti ricchi e poveri. Tutto è distrutto. Tutti sono stati colpiti. Anche il primo ministro è stato evacuato, con la famiglia si sono sistemati in un’ala degli uffici del palazzo presidenziale. Quando parli con le persone qualsiasi sia l’argomento comincia sempre con il paragone before Mària. Per anni ci sarà un prima e un dopo Maria. Poi vedendo la devastazione ti chiedi da dove si ricomincia la ricostruzione.

Intanto c’è da assicurare i servizi minimi essenziali: acqua, cibo, salute, riparo, prime riparazioni alle infrastrutture, telecomunicazioni e logistica per muovere gli aiuti. E la macchina internazionale degli aiuti si è messa in moto subito. Io sono a carico di cibo, telecomunicazioni e logistica con un team di una ventina di colleghi in collegamento con gli altri operatori umanitari (per un totale di un centinaio di persone) e soprattutto il governo. Mi vengono in mente le parole del mio collega capo della logistica regionale che avevo incontrato a Panamá poco prima di partire per Dominica, lui di ritorno dopo esserci passato il giorno successivo all’uragano per una ricognizione dei danni. È stato il primo di tutta la comunità internazionale a raggiungere Dominica con il nostro volo umanitario. Mi commentava che non aveva mai visto una situazione del genere con gli abitanti completamente persi che si aggiravano tra le macerie con lo sguardo smarrito domandosi che cosa gli fosse successo. E certo non era la prima emergenza che vedeva. I nostri logistici sono incredibili: tu stai ancora pensando se ti devi muovere e cosa devi fare e loro sono già sul posto ad organizzare gli aiuti, o meglio innanzitutto a permettere a come fare arrivare gli aiuti sia da fuori l’isola alle zone più remote, a valutare i danni delle strade, a identificare le vie migliori, a definire le priorità e identificare le persone più vulnerabili. Con pochi giorni a disposizione prima che finiscano le riserve delle varie comunità.

La distruzione di Maria è stata causata da tre fenomeni. L’uragano stesso con la forza del vento a quasi 300 chilometri orari che ha fatto volare i container del porto commerciale spostandoli di mezzo chilometro come fossero scatoloni di cartone o ha piegato i pali di illuminazione dello stadio. La forza del mare e dei fiumi che sotto l’effetto della tempesta hanno spazzato via tutte le costruzioni sulla costa e al lato dei fiumi. Dominica, probabilmente l’isola più verde e selvaggia dei Caraibi, ha più di 300 fiumi che scendono rapidi dai pendii delle montagne a picco sul mare. I fiumi straripati hanno portato a valle tutto di tutto: tronchi di alberi, case, auto, pali della luce in groviglio di cose spinte in mare il quale ha riversato tutto sulle coste. Il terzo fenomeno devastatore è purtroppo causato dall’uomo. I giorni successivi al passaggio dell’uragano sfruttando il caos della distruzione, la mancanza di luce e l’impotenza della polizia hanno lasciato spazio alle bande di sciacalli hanno assalito negozi, uffici e case private portandosi via tutto quello che potevano. Tra le prime vittime la comunità cinese abbastanza numerosa before Mària sempre vista come stranieri hanno lasciato libero il campo abbandonando l’isola per farci ritorno solo dopo qualche mese per ritrovare i loro negozi e magazzini completamente vuoti. Ma ci sono anche altri posti impensabili attaccati dagli sciacalli. Mi raccontava la moglie di uno dei nostri autisti insegnante di una scuola elementare cha avevano portato via tutto dalla scuola. Mi chiedo cosa ci faranno i gessetti, le lavagne e qualche sedia e banchi di scuola per bambini delle elementari. Purtroppo succede in tutti i paesi, poveri o ricchi che siano. Però il lato bella della storia è come la stessa insegnante andasse fiera del fatto che con l’aiuto della comunità ha pensato di rimettere in piedi la scuola prima ancora di pensare alla propria casa. Nel giro di tre mesi praticamente tutte le scuole hanno riaperto mentre gli stessi bambini tornano in case con tetti coperti da teloni e senza elettricità. Nello stesso lasso di tempo meno di un quinto delle case hanno ritrovato luce e acqua corrente. L’educazione dei figli ha priorità su tutto. Questo dà speranza a un paese piegato ma con grande voglia di riscatto.

 

Il calcio è passione, il calcio è guerra.

Jorge “Màgico” Gonzalez è un mito assoluto, un’icona de El Salvador. Dopo Monsignor Romero è probabilmente il salvadoregno più conosciuto e amato in patria. El Màgico, di professione calciatore, approdò nel campionato spagnolo dopo aver portato la nazionale salvadoregna ai Mondiali Spagna ’82, seconda volta nella storia calcistica nazionale. Malgrado le magie del Màgico la Selecta, cosi viene chiamata la nazionale, prese una scoppola dall’Ungheria perdendo undici a uno. Ad oggi, ancora il record assoluto di differenza goal subiti in una fase finale dei Mondiali. Quell’unico goal del Salvador ai Mondiali non fu segnato dal Màgico, malgrado Maradona, alla domanda “qual’è il miglior giocatore di tutti i tempi?”, per non citare se stesso rispose il Màgico Gonzalez del Salvador. Questo contribuì alla costruzione del mito oltre a una tecnica, una velocità e dei numeri eccezionali che portarono il modesto Cádiz ai piani alti del campionato spagnolo alla metà degli anni ’80, e il Màgico a guadagnarsi un interessamento del Barcellona tanto che il club catalano lo portò nel tour estivo negli Stati uniti giocando al fianco di Maradona. Però il Màgico dai piedi eccezionali era anche un cavallo pazzo con poca voglia di allenarsi e tanta voglia di divertirsi. Perciò il Barcellona rinunciò e il nostro andò al Real Valladolid dove non resistette al freddo del clima e della gente. A furore di popolo ritornò al calore meridionale del Cádiz. La società gli impose però una clausola di pagare una multa per ogni allenamento saltato. Ma il Màgico giocava solo per divertimento e non per soldi, e continuò a fare tardi la sera, a non presentarsi agli allenamenti e a segnare tanti goal la domenica. Un grande talento, un grande personaggio. Che ho avuto l’onore di conoscere e giocarci contro!

Con la scusa delle celebrazioni europee del mese di maggio, Jaume, l’Ambasciatore dell’Unione Europea majorquino tifosissimo del Barcellona, organizza una partita semi-ufficiale Unione Europea-Selecta ’82. Organizziamo un’armata brancaleone di spagnoli, italiani, francesi e molti innesti salvadoregni quale rappresentativa europea per affrontare, a mezzogiorno di un sabato di maggio, i superstiti abili di Spagna ’82 con figli, nipoti, amici e affini. Tutti in attesa del Màgico il quale, come ogni star che si rispetti, appare con un’ora di ritardo con la sua lunga chioma grigia, accerchiato da un nugolo di ragazzini adoranti. Gli passano dei scarpini e maglietta, perché da vero bohémien non si porta niente. Entra in campo dirigendo il gioco da vero numero dieci. Senza fare grandi corse, anche se ancora tonico fisicamente, fa lanci e si diverte come ha sempre fatto lungo tutta la sua vita, giocando a fùtbol. Finito l’incontro, si presta ai selfie e distribuisce autografi a ragazzini e adulti, perché dopo trent’anni dal ritiro è l’unica vera star del fùtbol salvadoregno. Per la cronaca abbiamo perso cinque a uno, ho anticipato due volte il Màgico, subìto un tunnel per parte sua e guadagnato il ricordo di un grande personaggio che ama il fùtbol, il Salvador e la bella vita.

Per capire l’importanza della carriera internazionale del Màgico basti guardare dove militano attualmente i migliori calciatori salvadoregni. Dei 40 giocatori nel giro della Selecta di quest’anno solo 7 giocano all’estero: due in Islanda, uno in Turchia e il resto nella seconde divisioni degli Stati Uniti tranne uno che gioca nei San Diego Earthquakes, primeggiando come il giocatore salvadoregno meglio pagato con un ingaggio di 200 mila dollari l’anno. La maggior parte quindi sono rimasti a giocare nel campionato nazionale di 12 squadre che prevede eliminatorie, play-offs e finali, assegnando due titoli in un anno. Difficilmente un giocatore salvadoregno riesce a guadagnare più di sette mila dollari al mese mentre la media si aggira piuttosto sui due o tre mila dollari mese.

Questa stagione ha visto due volte la stessa finale: i bianchi dell’Alianza, storica squadra di San Salvador fondata dai dipendenti de Industria La Constancia birrificio principale del paese, contro i gialloverdi di Santa Tecla, una squadra ri-creata solo cinque anni fa. Santa Tecla è uno dei 14 municipi contigui alla capitale formando la Gran San Salvador. Praticamente un derby. A novembre il Santa Tecla le aveva suonate all’Alianza, rivincita a giugno che vado a vedere allo stadio tra la “Barra Brava”, gli ultras dell’Alianza lato tribuna Tevere nord, ahimè per la geolocalizzazione della tifoseria nello stadio della capitale che ospita la metà di tutte le partite del campionato. Avrei preferito la Sud. Trovo un tifo molto organizzato e molto caliente ma tutto sommato civile considerando di stare nel paese con il maggior numero di ammazzati al mondo per densità di popolazione. L’Alianza prende un’altra scoppola perdendo quattro a uno. Le lacrime a fine partita in uno stadio a novanta percento per l’Alianza si sprecano.

Il calcio è passione. Però come per tutti gli ultras in giro per il mondo, il calcio è anche guerra e la sconfitta in una partita è un dramma. Però in Centroamerica un po’ di più, tanto che nel 1969 sarà guerra vera tra Honduras e El Salvador, in nome del santo calcio.

Qualificazioni Mondiale Messico ’70. El Salvador e Honduras arrivano allo spareggio qualificazione. I rapporti tra i due paesi sono già tesi politicamente. Rivendicazioni di frontiera sopito da un accordo che permette ai contadini salvadoregni di andare a lavorare in Honduras per costituire un’essenziale valvola di sfogo per il Salvador dalla crescita demografica accelerata. Di fronte alla marea di 300 mila migranti dal confinante Salvador il caudillo honduregno Lopez Arellano revoca unilateralmente l’accordo. La tensione tra i due paesi cresce. Si gioca la partita di andata a Tegucigalpa. La Selecta viene accolta con minacce fisiche. La notte prima della partita gli honduregni manifestano di fronte all’hotel che ospita la nazionale salvadoregna, molestandola tutta la notte. L’Honduras vince uno a zero. In patria, al triplice fischio finale, Amelia Bolaños diciottenne figlia di un generale dell’esercito, per la delusione della sconfitta si spara un colpo al petto con la pistola del padre. Diventerà la prima eroina nazionale della guerra salvadoregna-honduregna.

Partita di ritorno a San Salvador, la settimana successiva. Stessa accoglienza a parti rovesciate. Però a questo giro si finisce con il morto. L’accompagnatore salvadoregno della nazionale honduregna per calmare i manifestanti agitatori, si affaccia dal balcone dell’hotel dove alloggiano i giocatori honduregni, ma viene accolto da una sassaiola e praticamente lapidato. In un clima surreale nazional-patriottico con bandiere honduregne bruciate e cori patriottici, sotto i mitra spianati dei militari, si gioca la partita. El Salvador vince tre a zero. E siccome non esisteva ancora la regola in-caso-di-pareggio-valgono-i-gol-segnati, si dovrà giocare la bella. Il post-partita vive il classico caccia all’uomo e ci scappano altri due morti honduregni. Visto la tensione tra i due paesi, la FIFA decide di far giocare la bella in Messico. El Salvador va in vantaggio. Pareggio immediato dell’Honduras. Nuovo vantaggio del Salvador. Honduras segna allo scadere. Si va ai supplementari. Segna il Salvador guadagnandosi la prima storica qualificazione ai Mondiali. La retorica patriottica è alle stelle. Tre settimane dopo il 14 luglio 1969, le truppe salvadoregne entrano in Honduras. Quattro giorni di conflitto e sei mila morti sul campo di battaglia il triste resoconto della guerra che verrà ricordata come la Guerra del fùtbol, dove lo spirito nazionalista della guerra del calcio ha dato le polveri al patriottismo della guerra guerreggiata, quella tristemente vera.

 

 

 

Vivere con 12 morti al giorno

16 marzo, 29 morti ammazzati nel paese in un solo giorno. E’ record da quando sono in El Salvador. Un numero eccezionale che spicca nella normalità di circa 10-12 omicidi al giorno. Un numero da guerra, in un paese dalle dimensioni di territorio e di popolazione pari alla Lombardia.

Di solito c’è un morto qui e un morto là nella periferia delle città, in villaggi rurali o in casolari agricoli isolati. Quel giorno invece due affronti di gruppo. Uno in San Martin nella periferia di San Salvador, una di quelle difficili dove le due bande principali di mareros si affrontano per questione di controllo del territorio, lasciando 9 morti sul campo di battaglia.

L’altro, più inquietante, nel centro di San Salvador nell’infinito mercato a cielo aperto, vero cuore commerciale dell’economia informale del paese. Prodotti cinesi, merce rubata, artigianato vero o falso, finta merce di alta qualità tedesca o italiana (il marchio Made in Italy va sempre forte) vengono scambiati da micro-commercianti che difendono giorno e notte il loro metro quadro di strada, fonte di reddito conquistata con grande fatica. In questo mondo pulsante di attività, un paio di pandilleros assaltano un commerciante. Reazione delle guardie di sicurezza privata che vigilano la zona ma tre di loro vengono uccise nello scontro. I vigilantes si organizzano per una rappresaglia immediata, scovano gli autori e ne uccidono 3. Occhio per occhio, dente per dente è la legge della strada. Totale 6 morti ammazzati in una tranquilla mattinata di sole in San Salvador. Metodi da guerriglia dove i mareros attaccano e i vigilanti rispondono per difendere il proprio datore di lavoro. La polizia e l’esercito stanno lì a guardare o per limitare i danni o per mancanza di mezzi o perché alcune zone sono off limits.

In mezzo, la popolazione che sopravvive economicamente e deve comunque pagare per una protezione territoriale, assicurata dai mareros o vigilantes che siano. E non è una vita facile che comincia molto presto la mattina e finisce al calare del sole quando ci si chiude in casa per evitare le insidie della notte tracciate in una mappa invisibile ma conosciuta a tutti, delimitando le zone dove non andare e definendo le regole di convivenza.

Però ci sono anche segni molto concreti del controllo del territorio. Due i segni più evidenti e facili da riconoscere. Una semplice grande scritta sui muri, di solito all’ingresso della comunità o del quartiere. MS o MS13 o 13 per la Mara Salvatrucha 13 e un semplice 18 per la Mara Bario 18. Poi l’altro segno, più folcloristico, sono le scarpe appese ai cavi della luce sempre in punti strategici ben visibili. Non scarpe qualsiasi. La marca e il modello definiscono il marchio di appartenenza, ovviamente ripercorrendo le contrapposizione tra le grandi marche mondiali. Se appartieni a una mara sei nike o adidas o puma e non si scherza. Sono sicuro che i rispettivi markettari delle grandi marche abbiano pensato a usare i mareros come testimonials. Per la cronaca, nike è MS13 mentre adidas identifica la 18, però non è così semplice e ci molte più sfumature che cambiano nel tempo e rimangono indecifrabili al di fuori della gang.

Un altro segno di controllo del territorio è l’attuazione stessa del controllo del territorio. All’ingresso della comunità hai un ragazzo con un telefonino in mano che manda messaggi sui movimenti d’ingresso e uscita per allertare il vertice locale se ci sono altri gruppi che provano a entrare, polizia o qualsiasi altro potenziale pericolo. Tutto in maniera molto discreta però pronti a tirare fuori le armi se necessario. Ecco, le armi. Se ne vedono tante tra polizia, esercito, vigilantes privati e cittadini privati. Come quel giorno che stavo sulla spiaggia con Axel un amico del gruppo del kite che ha appena comprato un jet-surf, un surf da onda con un motore a getto tipo jet-ski. Il giocattolino (da 14 mila dollari) pesa abbastanza e per caricarlo sul carrellino da spiaggia ci aiuta la sua guardia del corpo pistola infilata nel costume. La pistola è normalità nel paese da 12 morti al giorno.

Così vivono i salvadoregni dalla classe media alla super-ricca. Vivono in una bolla protetta da guardie, barriere di protezione e strategie di “evitazione”. Si va solo in certe zone, ci si muove tra una zona e l’altra galleggiando con grandi SUV sopra le zone povere e disperate. Si evita in tutti i modi il contatto con il pericolo. Due aneddoti. Uno di una mia collega di 26 anni nata a San Salvador la quale, in tutta la sua vita, non è mia andata nel centro dove comunque ci sono la cattedrale e qualche edificio storico da vedere. I suoi genitori glielo proibirono e la questione non si pone. Un secondo esempio è una del gruppo di bici che quando un sabato facemmo un’uscita per salire fino alla Puerta del Diablo, zona difficile raggiungibile con una bellissima salita di 15 chilometri, a tratti molto difficile però con ricompensa finale di un vista spettacolare su San Salvador. E mi racconta come da piccola veniva sempre qui su, che però non aveva mai portato i suoi figli perché troppo pericoloso. Quel giorno si stupì che in fondo l’avrebbe potuto fare. Ecco, per vivere i salvadoregno si chiudono in una bolla, a ogni classe sociale corrisponde la sua bolla.

Una quindicina di giorni prima della mattanza dei 29 morti, il paese si era emozionato per la morte di Gustavito, un simpatico ippopotamo tra le attrazioni principali dello zoo di San Salvador. Era l’unico del paese e fu un regalo del Guatemala perché d’ippopotami ne ha ancora alcuni. Il paese si emoziona quindi davanti al Gustavito agonizzante per ferite subite da ignoti, e dopo qualche giorno non ce la farà. L’emozione è tale che la Ministra dell’Ambiente andata allo zoo a verificare le condizioni uscendo lascerà dichiarazioni sull’orlo delle lacrime che per l’ippopotamo non c’è più niente da fare. Un mese dopo, la ministra stessa racconterà a cena a casa mia che sentiva così forte l’emozione collettiva per un atto così barbarico che non ha potuto trattenere le lacrime. Le lacrime di un paese dalle grandi contraddizioni. Speriamo che giustizia sia fatta per Gustavito, ma anche per i 29 morti di un normale giorno di marzo.

 

    

 

Il colore della politica

Riunione al municipio di San Francisco Gotera, le foto esposte all’ingresso non lasciano dubbio sull’orientamento politico del sindaco. Nell’androne, tra i comunicati delle persone ricercate, il calendario del torneo di calcio sono appese in bella mostra le foto di Lenin, Fidel e dell’immancabile Che. Il messaggio è chiaro e riprende il monito di Lenin: “Un buon comunista si alza tutte le mattine con il piede sinistro”.

Ci accoglie il sindaco con una camicia rossa bandiera sovietica e sospetto che i quadri esposti siano frutto di un suo editto. Ci fa accomodare nel suo ufficio e i dubbi diventano certezza. Il nostro simpatico sindaco ha una chiara preferenza romantica per il Che, ricordandosi che il duro lavoro giornaliero di sindaco di una piccola cittadina salvadoregna in fondo in fondo ancora insegue il sogno ribelle della rivoluzione permanente.

Più che culto della personalità l’essere esposti tra informazioni municipali e locandine pubblicitarie normalizza questi personaggi storici in nome dei quali probabilmente il sindaco ha combattuto la sua guerra nelle montagne di Morazàn.

I segni della politica o meglio dell’appartenenza politica sono sempre molto visibili in tutto il paese. Entrando in qualsiasi villaggio, paesino o cittadina si capisce subito il colore di preferenza o chi comanda. Rosso per il FMLN, blu-bianco-rosso per Arena e arancione per GANA, il terzo partito di centro-destra che nasce dalla fusione della democrazia cristiana e del partito conservatore. L’espressione del colore può prendere varie forme dalle classiche bandierine ai più inusuali striscioni di benvenuto a nome del sindaco del tal partito o veri e propri murales retaggi dell’ultima o di molte elezioni fa. E sono anche il segno della stabilità dell’orientamento visto che molto spesso sono sbiaditi e chiaramente intoccabili.

Questi segni si confondono con quelli dei mareros ma questo è un altro tema…

  

Sabato 3 dicembre

Il 3 dicembre il cielo di San Salvador s’illumina di fuochi di artificio. Uno spettacolo che durerà più di mezz’ora. Forse i giochi di luce dei fuochi sono un po’ ripetitivi però un grande investimento. Effettivamente la bacheca del condominio aveva annunciato con dieci giorni di anticipo che avrebbero aperto la terrazza condominiale per l’occasione. Con i suoi 25 piani il terrazzo è uno dei punti più alti della città. Vista bellissima un poco sopra le luci della città, tanto che alcuni giorni prima con alcuni vicini ci eravamo organizzati per vedere il big moon che poi tanto big non fu. Quindi arriva il 3 dicembre e puntuali come svizzeri partono i fuochi alle 7 di sera proprio mentre esco dal lavoro. Davanti all’ufficio noto una famigliola con figlio di 10 anni tutti accomodati sul tetto della propria macchina per godersi lo spettacolo. Un evento insomma.

Ma che cosa si celebra il 3 dicembre? L’annuncio in bacheca diceva per “dare inizio alle festività natalizie.” Certo per un paese cosi permeato dalla religione cristiana è quasi comprensibile però cercavo di capire a quale evento storico-religioso fosse collegato. Bene, la tradizione risale a 25 anni fa quando la catena fastfood Pollo Campero decise di offrire alla città dei fuochi d’artificio, ovviamente con costi fiscalmente deducibili perché considerati un’attività a favore della collettività. Da allora il primo sabato di dicembre di ogni anno il Pollo Campero affitta lo stadio principale dal quale organizza una mitragliata di fuochi e grande kermesse a base di pollo fritto. E’ un’immagine emblematica de El Salvador: celebrazioni religiose e fastfood mischiati in un’unica cultura.

Si dà così inizio al consumismo sfrenato rigorosamente sponsorizzato dalle grandi marche. Si vede che il successo della tradizione pollo campero ha spinto altre marche a trovare delle attività a favore della collettività. Infatti tutte le principali piazze dei quartieri alti della città vengono “sponsorizzate” e decorate con tanto di cartelli che non lasciano dubbio sull’identità del babbo natale della piazza. Una piazza però merita una menzione speciale: quella di Arena situata tra la chiesa dei mormoni e il centro commerciale multiplaza, tanto per rimanere in tema religioso-commerciale. Arena è l’attuale principale partito di opposizione fondato nel 1981 dal Maggiore Roberto D’Aubuisson, per far fronte alla montata comunista e appoggiare il governo dei militari. Nel suo curriculum D’Aubuisson ha come punto di onore l’accusa da parte della Commissione delle Nazioni Unite per la Verità per El Salvador di essere stato il mandante dell’uccisione di Mons. Romero, finanziando e organizzando personalmente lo squadrone di esecuzione.

La bandiera di Arena uguale a quella olandese sventola tutto l’anno sulla piazza. E in periodo natalizio come tutte le altre piazze si veste a festa, sponsorizzata da una società che produce yoghurt. Altra immagine emblematica de El Salvador, piccolo paese dai grandi contrasti: una piazza politica con chiari messaggi politici tipo “Patria Si, Comunismo No” partecipa alla orgia commerciale natalizia.

E per ribadire il periodo natalizio e non farsi mancare niente della cultura il venerdì successivo c’è stato il Black Friday, eseguito in perfetto stile gringo.

 

  

         

     

      

Election Day After

Riflessioni sulla giornata tra il Dipartimento Usulutàn e San Salvador che in qualche modo presenta alcune analogie sugli eventi mondiali e il piccolo mondo de El Salvador.

La giornata comincia con la conferma dell’elezione di Donald Trump che già avevo sentito venire la sera prima ma ero andato a dormire sperando in chissà quale miracolo. Quindi sveglia in San Miguel, terza città del paese, per visitare un progetto in Jiquilisco insieme al nostro partner tecnico Istituto Interamericano de Cooperación para Agricultura. E’ un progetto di costruzione di resilienza per piccoli produttori agricoli per garantire che abbiamo accesso a cibo tutto l’anno con dieta diversificata perché oltre al grano basico producano anche verdura che prima non producevano. Dobbiamo aiutare la comunità, con un progetto gestito soprattutto da donne, a realizzare un piccolo sistema di irrigazione per annaffiare l’orto comunitario prendendo l’acqua da un fiumiciattolo che sta 600 metri più giù. Le case del villaggio non hanno acqua corrente, non hanno porte, dormono in un amaca, la cucina è a legna, altamente tossica per i fumi.

E’ una realtà molto diversa da quella che conosco. A dire il vero le donne vestono all’Occidentale. La leader del gruppo a una maglietta bianca con delle paillettes e la scritta LDC come se fosse una marca conosciuta, ma non penso lo sia. Gli uomini hanno un immancabile cappello di paglia come quello dei cowboy e un grande machete dentro un fodero di cuoio con tante frange attaccato al cinturone. Tutti hanno un telefonino. Quindi discorsi, saluti, ringraziamenti, intervista per il video che verrà prodotto e si ritorna alla capitale che in realtà è  solo a due ore di macchina — nostra con il trasporto pubblico può diventare mezza giornata. Ufficio, casa, doccia uscita al prossimo appuntamento alle 7.30 di sera che già rappresenta età un’ anomalia di per sé perché sono rari gli eventi serali.

Serata per il lancio del sistema para un internet más rápido con tecnología LTE della Movistar. No so cosa voglia dire LTE però il marketing e la comunicazione mi fanno capire che deve essere qualcosa di molto fico e di molto rapido detto in un linguaggio pubblicitario che conosco. Lancio tipo prodotto Apple con il giovane CEO spagnolo di Telefonica El Salvador che spiega che negli anni siamo passati dalla tecnologia 2G dove si trasmetteva un giga in 2 secondi 45 millesimi a quella LTE dove la stessa informazione passerà in 0.5 millesimi di secondo. Veramente una cosa fica nel mio mondo. Non conosco nessuno nella serata e non parlo con nessuno anche perché tutto il tempo c’è musica techno a palla. Però immagino che ci sia tutta la crème del mondo corporate de El Salvador.

Ecco oggi ho visto due mondi che stanno uno a fianco all’altro, che si vedono, si conoscono ma non si capiscono, che parlano la stessa lingua ma non parlano lo stesso linguaggio. Uno ha bisogno di acqua corrente in casa mentre l’altro ha bisogno di internet sempre più veloce. Uno ha votato per Trump perché paradossalmente vuole conservare quello che ha o vorrebbe avere. L’altro ha votato per Clinton perché vuole muoversi rapidamente in un mondo che cambia rapidamente. Ma i due mondi non si capiscono e soprattutto non hanno nessuna intenzione di conoscersi.