Vivere con 12 morti al giorno

16 marzo, 29 morti ammazzati nel paese in un solo giorno. E’ record da quando sono in El Salvador. Un numero eccezionale che spicca nella normalità di circa 10-12 omicidi al giorno. Un numero da guerra, in un paese dalle dimensioni di territorio e di popolazione pari alla Lombardia.

Di solito c’è un morto qui e un morto là nella periferia delle città, in villaggi rurali o in casolari agricoli isolati. Quel giorno invece due affronti di gruppo. Uno in San Martin nella periferia di San Salvador, una di quelle difficili dove le due bande principali di mareros si affrontano per questione di controllo del territorio, lasciando 9 morti sul campo di battaglia.

L’altro, più inquietante, nel centro di San Salvador nell’infinito mercato a cielo aperto, vero cuore commerciale dell’economia informale del paese. Prodotti cinesi, merce rubata, artigianato vero o falso, finta merce di alta qualità tedesca o italiana (il marchio Made in Italy va sempre forte) vengono scambiati da micro-commercianti che difendono giorno e notte il loro metro quadro di strada, fonte di reddito conquistata con grande fatica. In questo mondo pulsante di attività, un paio di pandilleros assaltano un commerciante. Reazione delle guardie di sicurezza privata che vigilano la zona ma tre di loro vengono uccise nello scontro. I vigilantes si organizzano per una rappresaglia immediata, scovano gli autori e ne uccidono 3. Occhio per occhio, dente per dente è la legge della strada. Totale 6 morti ammazzati in una tranquilla mattinata di sole in San Salvador. Metodi da guerriglia dove i mareros attaccano e i vigilanti rispondono per difendere il proprio datore di lavoro. La polizia e l’esercito stanno lì a guardare o per limitare i danni o per mancanza di mezzi o perché alcune zone sono off limits.

In mezzo, la popolazione che sopravvive economicamente e deve comunque pagare per una protezione territoriale, assicurata dai mareros o vigilantes che siano. E non è una vita facile che comincia molto presto la mattina e finisce al calare del sole quando ci si chiude in casa per evitare le insidie della notte tracciate in una mappa invisibile ma conosciuta a tutti, delimitando le zone dove non andare e definendo le regole di convivenza.

Però ci sono anche segni molto concreti del controllo del territorio. Due i segni più evidenti e facili da riconoscere. Una semplice grande scritta sui muri, di solito all’ingresso della comunità o del quartiere. MS o MS13 o 13 per la Mara Salvatrucha 13 e un semplice 18 per la Mara Bario 18. Poi l’altro segno, più folcloristico, sono le scarpe appese ai cavi della luce sempre in punti strategici ben visibili. Non scarpe qualsiasi. La marca e il modello definiscono il marchio di appartenenza, ovviamente ripercorrendo le contrapposizione tra le grandi marche mondiali. Se appartieni a una mara sei nike o adidas o puma e non si scherza. Sono sicuro che i rispettivi markettari delle grandi marche abbiano pensato a usare i mareros come testimonials. Per la cronaca, nike è MS13 mentre adidas identifica la 18, però non è così semplice e ci molte più sfumature che cambiano nel tempo e rimangono indecifrabili al di fuori della gang.

Un altro segno di controllo del territorio è l’attuazione stessa del controllo del territorio. All’ingresso della comunità hai un ragazzo con un telefonino in mano che manda messaggi sui movimenti d’ingresso e uscita per allertare il vertice locale se ci sono altri gruppi che provano a entrare, polizia o qualsiasi altro potenziale pericolo. Tutto in maniera molto discreta però pronti a tirare fuori le armi se necessario. Ecco, le armi. Se ne vedono tante tra polizia, esercito, vigilantes privati e cittadini privati. Come quel giorno che stavo sulla spiaggia con Axel un amico del gruppo del kite che ha appena comprato un jet-surf, un surf da onda con un motore a getto tipo jet-ski. Il giocattolino (da 14 mila dollari) pesa abbastanza e per caricarlo sul carrellino da spiaggia ci aiuta la sua guardia del corpo pistola infilata nel costume. La pistola è normalità nel paese da 12 morti al giorno.

Così vivono i salvadoregni dalla classe media alla super-ricca. Vivono in una bolla protetta da guardie, barriere di protezione e strategie di “evitazione”. Si va solo in certe zone, ci si muove tra una zona e l’altra galleggiando con grandi SUV sopra le zone povere e disperate. Si evita in tutti i modi il contatto con il pericolo. Due aneddoti. Uno di una mia collega di 26 anni nata a San Salvador la quale, in tutta la sua vita, non è mia andata nel centro dove comunque ci sono la cattedrale e qualche edificio storico da vedere. I suoi genitori glielo proibirono e la questione non si pone. Un secondo esempio è una del gruppo di bici che quando un sabato facemmo un’uscita per salire fino alla Puerta del Diablo, zona difficile raggiungibile con una bellissima salita di 15 chilometri, a tratti molto difficile però con ricompensa finale di un vista spettacolare su San Salvador. E mi racconta come da piccola veniva sempre qui su, che però non aveva mai portato i suoi figli perché troppo pericoloso. Quel giorno si stupì che in fondo l’avrebbe potuto fare. Ecco, per vivere i salvadoregno si chiudono in una bolla, a ogni classe sociale corrisponde la sua bolla.

Una quindicina di giorni prima della mattanza dei 29 morti, il paese si era emozionato per la morte di Gustavito, un simpatico ippopotamo tra le attrazioni principali dello zoo di San Salvador. Era l’unico del paese e fu un regalo del Guatemala perché d’ippopotami ne ha ancora alcuni. Il paese si emoziona quindi davanti al Gustavito agonizzante per ferite subite da ignoti, e dopo qualche giorno non ce la farà. L’emozione è tale che la Ministra dell’Ambiente andata allo zoo a verificare le condizioni uscendo lascerà dichiarazioni sull’orlo delle lacrime che per l’ippopotamo non c’è più niente da fare. Un mese dopo, la ministra stessa racconterà a cena a casa mia che sentiva così forte l’emozione collettiva per un atto così barbarico che non ha potuto trattenere le lacrime. Le lacrime di un paese dalle grandi contraddizioni. Speriamo che giustizia sia fatta per Gustavito, ma anche per i 29 morti di un normale giorno di marzo.

 

    

 

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