El masacre del Mozote – GdM3

Fine settimana a Perquìn uno dei campi di battaglia della guerra civile. In linea d’aria a 10 km dalla frontiera con l’Honduras che negli anni ottanta accoglierà 9 mila salvadoregni in un campo rifugiati. Negli anni novanta alcuni di loro andranno negli Stati Uniti, assicurando così ancora oggi la prima fonte di reddito della zona con le rimesse famigliari. La maggioranza tornerà ancora prima degli accordi di pace, accolta da Mia che conosciamo, una belga arrivata nel 1985 lavorando per la Caritas. Negli anni metterà su, con i soldi della sua città di origine fiamminga, una scuola di musica. Serata con il Grupo Morazàn composta 5 giovani della scuola con ognuno che ruotava tra i vari strumenti chitarra, flauto, batteria, percussioni e tastiera per suonare un’ottima musica andina centroamericana con anche pezzi propri. Malgrado i 31 anni passati li Mia mostra un incredibile energia dicendo che ancora deve andare in Congo!

Al Museo storico di Perquin, un’esposizione di foto e di documenti storici, ci accompagna il direttore per raccontare la Storia Vera come dice lui, quella che ancora non è stata raccontata ufficialmente. La storia qui è il massacro de El Mozote dove l’esercito in 3 giorni ha massacrato un intero villaggio cercando i guerriglieri che non c’erano perché rifugiati nella vegetazione tropicale delle montagne. Invece dei guerriglieri uccisero tutti, anziani, donne e bambini appena nati o adolescenti per il semplice motivo di essere lì. Incontriamo la Presidente dell’Associazione Promotrice dei Diritti Umani del Mozote e vari familiari delle vittime nel El jardin de reflexiòn de Los Inocentes, giardino adiacente alla chiesa dove furono uccisi centinaia di bambini e bambine i cui corpi furono bruciati o sotterrati in fretta in fosse comuni. Ascoltiamo il racconto di una signora violentata dai soldati poi riuscita a mettersi in salvo e scappare verso il sud mentre il padre veniva ucciso.  Ascoltiamo Saturnino dire che non se la sente di parlare ma piano piano comincia a raccontare che in quei giorni lavorava nelle piantagioni di caffè a qualche chilometro e saputo del massacro aveva cercato di tornare, ma era potuto entrare solo dopo una decina di giorni per così scoprire che tutta la sua famiglia era stata massacrata. Credo la difficoltà nel parlare venisse dalla sensazione d’impotenza per non aver potuto salvare la famiglia. Tante e tante storie anche quelle non raccontate perché la gente ancora ha paura di farlo. Storie forti che raccontato che la popolazione non appoggiava la guerriglia ma condivideva quel poco che aveva con tutti anche con i militari di istanza. Storia di un attacco preparato dal comando militare ed eseguito dall”‘eroe” della campagna militare Monterrosa Barrios. Storia di un massacro d’innocenti. Storia di violazione dei diritti umani. Con gli esecutori e i mandanti tutti impuniti, ancora in posti di comando in alcuni casi. Su questo punto il direttore del museo è lapidario affermando che gli unici che devono chiedere scusa sono gli Stati Uniti per l’appoggio diretto al governo e ai militari dell’epoca.

Tra tutti i villaggi della zona perché proprio a Perquìn chiediamo. Tra mito e realtà ci dicono perché c’era stato un litigio per una terra e il perdente causa per vendicarsi andò dai militari dicendo che Perquìn fosse piena di guerriglieri. Come in ogni guerra ci sono i delatori, i traditori, i collaboratori e gli eroi. Tra quest’ultimi sicuramente Radio Venceremos, radio ovviamente vietata e perseguitata dalle forze governative senza successo, tanto che costituì uno strumento fondamentale per raccontare quello che succedeva e ottenere il consenso della popolazione a sostegno della guerriglia.

Quindi storie di violazioni gravi non prescrivibili malgrado la prima legge di amnistia ora dichiarata incostituzionale. Perché il governo attuale di sinistra presieduto da Salvador Sanchez Cerèn, uno dei principali comandanti della guerriglia e fondatore del FMLN non è stato più attivo nel condannare i colpevoli? Forse perché il paese sta combattendo un’altra guerra contro le maras e ha bisogno per questo dell’esercito composto dalle stesse persone che compirono i massacri e trent’anni dopo sono salite a posizioni di comando. La realpolitik prevale sulla giustizia lasciando i poveri familiari delle vittime senza la giusta compensazione, fosse anche solo morale.

L’Associazione delle Vittime

Radio Venceremos

 

Il santuario di Perquìn dove incontriamo una giovane suora

Il punto di vista dei militari – GdM2

Il secondo giorno del viaggio della memoria inizia con la visita al museo militare. Obiettivo sentire l’altra campana, quella dei militari. Ci guida il colonnello comandante della base la quale, nota di colore, ospita la papa-mobile comprata per la visita di Giovanni Paolo II che venne negli anni 80 per rendere omaggio a Monsignor Romero, da morto. Agli occhi del papa anti-comunista, l’attivismo sociale e socialista di Monsignor Romero dava meno fastidio da morto che da vivo. Nella sostanza, il rapporto tra i due fu molto freddo e s’incontrarono solo una volta a Roma.  La visita al museo si svolge molto tranquilla, di routine con foto, oggetti, cannoni, fucili di un esercito piccolo e mal ridotto che però vuole giocare nella corte dei grandi partecipando alle missioni di pace ONU in Iraq, in Mali e altri paesi. Poi quasi uno choc. Entriamo nella sala dedicata alle operazioni durante la guerra civile. Racconto semplice e unilaterale da parte del colonnello coadiuvato dalle immagini della sala. Si parla non di guerra civile ma di Campagna militare 1980-1992 con tanto di esaltazione di eroi e figure militari mitiche tra cui il Tenente Colonello Monterrosa Barrios caduto in battaglia per i militari, mentre la versione dei guerriglieri è che abbatterono il suo elicottero lontano dai campi di battaglia. Ma quest’episodio nel museo militare non viene raccontato. Si vedono solo gli attacchi dei “ribelli” e non si rivela nessun’azione o attacco contro la popolazione civile fatto dai militari. Il tutto con la parola d’ordine Patria, Dio e Ordine. Come se fosse una risposta a un attacco da parte di un paese straniero.  Usciamo senza fare praticamente domande. Il punto di vista dell’esercito è molto chiaro.

Segue visita all’ex Casa Presidenziale inserita nel programma perché vicino alla base militare ma senza un legame specifico con il tema di ricostruzione storica della guerra civile tranne il fatto che era la casa del presidente quindi anche di quelli durante la guerra civile. Fu abbandonata dopo il terremoto del 2001 che ne ha minato la stabilità.  Originariamente era un collegio per formare i professori ora è stata ripristinata e usata dalla Presidenza come posto di rappresentanza per quanto sia un edificio molto sobrio, un’elegante costruzione in stile classico centroamericano con ampie balconate e colonne di legno.  Poi senza essere previsto incontriamo un giovane architetto che lavora lì e ci racconta delle sue origini indigene e come sta cercando di recuperare il movimento per il riconoscimento dei diritti degli indigeni tra cui il diritto alla terra. Affrontiamo tutt’altro tema soggiacente alla politica salvadoregna ma completamente ignorato. Negli anni ’30 i regimi militari fecero una pulizia etnica eliminando più 30 mila indigeni per ridistribuire le terre ai produttori di caffè. Secondo il nostro interlocutore c’è ancora il 12% della popolazione indigena pipil, lenca, cacaopera, chorotega e xinca unificati dalla lingua nahuat. Lo 0.2% secondo il censimento ufficiale. Insomma un altro capitolo della propria storia con il quale il paese dovrà fare i conti semmai il movimento indigeno dovesse prendere forza, ma ne dubito.

Visita al muro a commemorazione delle vittime della guerra civile. Sicuramente l’appuntamento più emotivamente coinvolgente.  Ci guida una delle animatrici dell’Associazione delle vittime insieme a una signora che ha perso suo fratello prelevato dalla polizia proprio vicino a dove è stato eretto il muro della commemorazione nel parco Cuscatlán al centro di San Salvador. Una specie di Central Park, certo molto alla lontana.  Ma entrambe le città hanno la loro lunga lista di morti esposta su un muro, però vince il Salvador per numero. 32.000 vittime civili censiti. I militari e i guerriglieri combattenti non entrano in questo conteggio e nel muro. Probabilmente la grande maggioranza sono vittime dei squadroni della morte, della repressione della polizia e della guardia civile. Alla fine i militari erano i più docili, si fa per dire.  Ci raggiungono l’avvocato dell’Associazione e la madre di una delle vittime scomparso a 17 anni. Con la foto in mano ci racconta come sapeva che il figlio era simpatizzante ma non partecipava ad azioni, però fu prelevato e non fece mai più ritorno. Vogliono giustizia e riparazione economica e non solo morale, così dice chiaramente l’avvocato. Tutti molto degni, molto composti malgrado il peso delle emozioni sia evidente. Gli accordi di pace del ‘92 hanno previsto un’amnistia totale ma dopo 25 anni non si trova ancora pace. La corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale quest’amnistia in rispetto al principio dell’universalità e della non prescrizione delle violazioni dei diritti umani e delle libertà individuali. Si discute di una nuova legge in bilico tra chi preferisce l’amnistia per non aprire ferite nel paese e chi vuole assolutamente condannare chi si è macchiato di crimini di guerra e contro la persona. E si vorrebbe arrivarci prima delle celebrazioni dei 25 anni degli accordi di pace del 16 gennaio.

Alla fine della visita vedo Sergio, un collega salvadoregno delle Nazioni Unite e collaboratore del Coordinatore Residente che cerca un nome nella lista dei nomi incisi sulla pietra nera e mi dice: questo è mio fratello morto nell’82, più in là c’è mio cugino morto nell’83. El Salvador è un paese piccolo e tutti hanno un parente, un amico, un vicino ucciso durante la guerra civile. È un problema che riguarda tutti.

 

Il Museo Militare

 

 

Il Muro della Commemorazione delle Vittime Parco Cuscatlàn

 

Le giornate della memoria – GdM1

Il Coordinatore Residente ha deciso di organizzare per il country management team quattro giorni in una sorta di viaggio nella memoria recente del paese, in vista della celebrazione della firma dei 25 anni degli accordi pace che hanno messo fine ad una guerra civile durata 12 anni dal 1980 al ’92.

La guerra inizia con il rovesciamento del generale Carlos Romero, ultimo presidente di un regime militare al potere dal 1931, da parte di una forza para-militare Juventud Militar sostenuta dagli statunitensi preoccupati che il generale Romero stesse perdendo il controllo del paese di fronte al rafforzamento di gruppi armati di sinistra sostenuti dai sovietici. Un vero pezzo di guerra fredda che diventerà guerra guerreggiata per i salvadoregni. Paradossalmente, il golpe fu avallato dal Foro Popolare che raggruppava le forze di sinistra riformatrici, tanto che si costituisce una sorta di governo di unità nazionale definito Primera Junta Rivolucionaria Nacional. Appoggiata anche dai gesuiti, la Primera Junta inizia a governare con promesse di riforma sociale agraria e nazionalizzazione della banca centrale e del commercio del caffè principale fonte di reddito del paese. Però vista la forte presenza militare nella Primera Junta, el Ejercito Rivolucionario del Pueblo si tira fuori e fa appello alla lotta armata che si organizza nelle campagne e nelle montagne. Iniziano così 12 anni di guerra civile che faranno più di 50 mila morti civili e militari.

Iniziamo la visita alla UCA, università centroamericana, la seconda di San Salvador, istituita dalla Compagnia di Gesù nel 1965. Ci riceve padre Tojeira, allora giovane capo dei gesuiti degli anni ‘80, spagnolo che sarà testimone dell’uccisione nel 1989, proprio alla UCA, di 7 gesuiti, la cuoca e sua figlia 17enne per mano di militari. Ci racconta l’episodio dentro al museo che è stato istituito. In modo molto gesuita e con molta diplomazia racconta senza mai sbilanciarsi veramente su chi furono gli autori del massacro, anche se ci sono forti dubbi che lo stesso allora presidente Alfredo Cristiani avesse avallato indirettamente o addirittura direttamente l’attacco. Cristiani sarà poi lo stesso presidente che firmerà gli accordi di pace. Padre Tojeira ci racconta com’è riuscito a far testimoniare la donna delle pulizie che ha visto scappare i militare, per poi farla uscire dal paese via l’ambasciata spagnola (malgrado l’ambasciatore avesse detto inizialmente di no) e poi rifugiata in USA. È stata una testimonianza fondamentale per identificare gli esecutori materiali. La partita è ancora aperta nonostante un mandato di cattura internazionale emesso dai giudici spagnoli. Ma i salvadoregni preferiscono regolare la faccenda da soli forse con una nuova legge di amnistia e riconciliazione nazionale. Padre Tojeira scoprirò molto dopo, da un giovane avvocato spagnolo che ha rinunciato a una brillante carriera forense a Madrid per lavorare nell’ufficio diritti umani dell’UCA diretto proprio da Tojeira, che il padre gesuita si sta battendo come un leone per il riconoscimento dei diritti umani in El Salvador. Un grande personaggio insomma.

Visita alla chiesa dove fu ucciso Monsignor Romero poi alla sua casa e infine alla cripta nella Cattedrale di San Salvador dove sono custodite le sue spoglie. Personaggio di spicco per le sue denunce di violazione dei diritti umani sia della giunta militare ma anche degli eccessi del fronte della guerriglia. Ucciso da un sicario mentre dava messa un lunedì di marzo 1980 alle 6 di pomeriggio. Un colpo solo al cuore, da lontano. L’esecutore materiale non fu mai trovato mentre si parla apertamente dell’ordine impartito dal militare Roberto d’Aubuisson che l’anno successivo fonderà ARENA, il partito di destra che governò dopo gli accordi di pace fino al 2008 e ancora oggi costituisce il principale partito di opposizione. La nostra guida alla casa-museo di Monsignor Romero è colui che ne fu l’aiutante laico. Ci racconta che un mese prima dell’assassinio, dopo aver visto movimenti strani intorno alla chiesa, avevano messo in piedi un piano di sicurezza che Monsignor Romero disattendeva sempre per andare in mezzo alla gente. Quando visitiamo la cripta ci danno un “santino” con un minuscolo pezzo di stoffa come reliquia del beato Romero in procinto di diventare Santo. Rimango sempre affascinato e sgomento davanti alla capacità autocelebrativa iconografica della Chiesa. Uno del gruppo mi racconta in pieno fervore mistico dei miracoli che il beato-quasi-santo-romero anche da morto è riuscito a far ottenere ai suoi discepoli. Parliamo di guarigioni miracolose. Mah… Comunque un immenso personaggio Monsignor Romero, unica figura unificatrice de El Salvador. Anche se nella Cattedrale di San Salvador i ritratti di Monsignor Romero e di Monsignor Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, sono posti uno di fronte all’altro, probabilmente per accontentare destra e sinistra.

A chiudere la giornata visita al carcere del periodo della guerra, ora diventato centro culturale con poche tracce di quelle che fu. Guida illustre José Antonio Morales Carbonell Subsecretario de Gobernabilidad cioè Vice Ministro della Governabilità. Antonio è figlio di Antonio Morales Erlich per anni sindaco di San Salvador e quando scoppia la guerra, ministro della democrazia cristiana al potere. Antonio figlio diventato attivista del Frente Farabundo Martì para la Liberacion Nacional (FMLN) a diciott’anni e venne arrestato nel 1980 rimanendo in carcere 2 anni, proprio nella cella che stiamo visitando. Figlio contro padre insomma. Tre ore di racconto di episodi molto intime sulla vita in carcere, di come riuscì a diventare leader e creare un collettivo per la gestione della prigione. Per esempio, ci racconta di come convinse il direttore del carcere a farsi dare metà del budget per il cibo e riuscirono a organizzarsi tra detenuti politici, separati dai detenuti comuni, per far arrivare cibo decente da fuori per tutti, guardie comprese. Probabilmente l’altra parte del budget rimase nelle tasche del direttore.

Un racconto da film: un giornalista italiano Giovani Caporazzo (ho cercato ma non si trova niente) riuscì a entrare nel carcere e fotografare un detenuto arrivato con segni evidenti di torture pesanti. Il reportage ripreso a livello internazionale rese noto le condizioni delle carceri salvadoregne. L’effetto della denuncia fu paradossalmente contrario all’obiettivo di migliorare le condizioni dei detenuti. Infatti per rispondere all’accusa della Croce Rossa di non fare prigionieri ma di preferire esecuzioni immediate sul campo, la giunta militare per dimostrare che non era vero decise di riempire le carceri, peggiorandone le condizioni.

In realtà il racconto di Antonio è quasi melanconico ricordando il bel periodo di formazione da combattente, anche se dopo la liberazione si rifugerà in Messico. Però una grande figura, molto umana che ancora oggi gli capita di incontrare i suoi carcerieri e torturatori. Un altro aspetto anacronistico di questo paese dove tutto viene insabbiato, tutto viene nascosto nel segno del perbenismo conservatore di destra o di sinistra.

 

Il museo dell’UCA

 

 

 

 

 

 

 

Monsignor Romero

 

 

 

 

 

Carcere di San Salvador